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Edizione del 21/06/2020
Estratto da pag. 1
Pd, Gori e Bonaccini stanno sfidando Zingaretti?
Zingaretti reagisce alle parole di Gori: evitiamo di fare i Tafazzi. Bonaccini ai fedelissimi: io in campo quando ci sarà la partita
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Nicola Zingaretti non è preoccupato per l’uscita di Giorgio Gori, che l’altro ieri ha proposto di dare una nuova leadership al Pd. Il segretario non teme di essere scalzato. Semmai il suo assillo è un altro: «Non capisco — dice ai parlamentari a lui più vicini — perché si voglia minare l’unità del Pd, che non è mai stata così forte, con questi distinguo. Il Partito democratico si candida ad essere la prima forza politica del Paese ed è indispensabile in qualsiasi scenario, perciò evitiamo di fare i Tafazzi come al solito».



Del resto, il segretario sa che gli ex renziani di Base riformista (la corrente del partito a cui appartiene, sebbene con le mani molto libere, il sindaco di Bergamo) non è della partita. «Gori non ha le truppe, perché quelle le abbiamo noi e comunque il congresso sarà tra tre anni», spiega uno dei leader di quella componente. Lo stesso Stefano Bonaccini (è il suo identikit, dicono, quello disegnato dal sindaco di Bergamo) non ha nessuna intenzione di scendere in campo adesso. Il presidente della regione Emilia-Romagna si muove senza fretta perché sa che i tempi sono lunghi. A meno che le cose non precipitino, ma questo comporterebbe una caduta del governo Conte.

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Perciò Bonaccini lascia che altri (in questo caso Gori) alimentino la suspense sulla sua eventuale discesa in campo. Per ora il governatore dell’Emilia-Romagna si schermisce e ieri, nel corso di un’iniziativa in quel di Misano, si è limitato a dire: «Segretario del Pd? Io sono molto impegnato a fare il presidente della Regione e il presidente della conferenza delle Regioni. Il mio contributo al partito credo di averlo dato vincendo una sfida che anche a Roma quasi tutti davano per persa, dimostrando che dopo tante sconfitte non era vero che Salvini e la destra fossero invincibili». Insomma, Bonaccini non conferma, ma non nega. Però ci tiene a ricordare che nemmeno il Pd nazionale faceva affidamento sul suo successo. E sottolinea che la sua vittoria è arrivata dopo tante sconfitte del Pd. Dice e non dice, il governatore dell’Emilia-Romagna. Ma ai fedelissimi confida: «Entrerò in campo solo quando ci sarà la partita».

Ora però il terreno di gioco è un altro. Ed è quello familiare a Zingaretti, la cui preoccupazione è un’altra. A breve, cioè a settembre, si voterà in sei regioni e in diversi comuni. E presentarsi divisi, fanno presente al Nazareno, non è certo un buon viatico, tanto più che i Cinque Stelle stanno rifiutando di allearsi con i dem praticamente dovunque. Unica eccezione potrebbe essere la Liguria, ma anche lì l’accordo non è ancora stato ratificato ufficialmente e ci sono dei problemi ancora aperti.

Da Bergamo, però, Gori insiste. Spiega che il tema che intende porre va al di là della sola questione della leadership: «Il fatto è che ci vuole un salto di qualità. Non è più il tempo di elencare le riforme che andrebbero fatte, il Pd non può limitarsi a questo. Deve farle, le riforme, non enunciarle, e deve smontare quelle sbagliate del governo giallo verde. Ma per fare tutto ciò servono più coraggio e più decisione».

Dal Nazareno, si preferisce fare finta di niente e lasciar rispondere a Gori soprattutto gli ex renziani, che con il sindaco di Bergamo hanno condiviso una parte significativa del loro percorso politico. Solo in serata da quel palazzo filtra un’annotazione maliziosa: «Alle ultime regionali, il 4 marzo del 2018, Gori si candidò in Lombardia e Zingaretti nel Lazio, il secondo vinse e il primo perse». I terreni di gioco, per la verità, erano molto diversi e quella di Gori era indubbiamente una partita in trasferta. La voce dal sen del Nazareno fuggita però è interessante per un altro motivo: al Pd non tutti sono convinti che il sindaco di Bergamo stia veramente lavorando per Bonaccini, ma ritengono che Gori voglia scendere direttamente in campo. Oggi per guidare la minoranza interna del Pd, domani chissà.