linkiesta.it
Dir. Resp.
Tiratura: n.d. - Diffusione: n.d. - Lettori: 14760
Edizione del 01/06/2020
Estratto da pag. 1
La recente intervista del segretario democratico a Repubblica non convince, a partire dalla proposta di chiamare le aziende pubbliche per coordinare le scelte di investimento, come se queste non fossero una loro prerogativaQuando un segretario di partito, nel nostro caso Nicola Zingaretti, rilascia una intervista a un giornale importante, nel nostro caso la Repubblica, deve dare almeno una notizia. Su quella, il giornale fa il titolo e c’è poi il rimbalzo sui tg serali e sulle agenzie.Ma se la notizia è un’idea sbagliata, la catena mediatica trasferisce un’idea sbagliata: la convocazione delle aziende a controllo pubblico per “coordinare le scelte” di investimento, come se le politiche degli investimenti non fossero una prerogativa essenziale delle aziende stesse.L’ultima volta in cui una cosa del genere è stata fatta fu nell’estate del 2018, quando Di Maio “convocò” le aziende pubbliche a Palazzo Chigi e chiese loro di “garantire” tre nuovi posti di lavoro per ogni posto esistente, grazie ai miracoli del decreto “dignità” da lui inventato, quello che ora è stato sospeso, per non dire cancellato, una volta arrivato al binario morto di decine di migliaia di licenziamenti certi.Fu un incontro penoso, con i capi azienda sotto rischio di non conferma da parte del nuovo governo gialloverde. La gran parte di loro non prese la parola. Trapelò a malapena una previsione di incremento occupazionale di 1,3. Era il tempo in cui, per abbattere la povertà, si indicava una crescita immaginaria del Pil, festeggiando al balcone un 2,5, poi diventato 2,05 (che sarà mai?) strappato al povero Tria come se fosse una conquista definitiva. Siamo infine scesi in concreto allo 0,9%, grazie al fatto che i danni gialloverdi incisero solo su un semestre. L’anno dopo eravamo a zero.Ora la storia si ripete, ma occorrerebbe che almeno alcuni principi siano chiari. Le aziende “di Stato” non sono più quelle dei tempi delle Partecipazioni Statali, Zingaretti forse non ricorda che quel ministero non c’è più. Sono aziende quotate in Borsa e i mercati si irritano se vengono a sapere che un governo le “convoca”.L’unico modo in cui un governo può influire sui loro comportamenti, così come su tutti quelli degli altri soggetti economici, è di utilizzare le leve, quelle sì davvero “pubbliche”, del fisco, degli incentivi, dell’export e delle regole del lavoro, insomma degli strumenti di politica economica. È li che si vede la capacità di un governo, la si chiami anche programmazione se piace agli allievi di Corbyn.È comunque applicare regole normali di mercato, non “liberismo” da mettere impropriamente, come fa Zingaretti nella stessa intervista, sullo stesso piano del populismo. È libero mercato, è visione ampia, plurale e globale. Già ti sei inventato uno strumento a doppio taglio come il golden power per proteggere l’economia nazionale, senza tener conto che se fosse applicato da altri ad aziende come Eni o Leonardo, sarebbe per loro un disastro. Non si possono forzare certi limiti. Dire alle aziende “pubbliche” di investire in Italia è un’astrazione politica, quando Eni ha un orizzonte mondiale ed Enel una presenza su continenti sui quali non tramonta mai il sole.Quella che preoccupa è la mentalità che percorre l’intera intervista. Zingaretti ripete che vede bene Conte come progressista, copre Orlando sulle intimazioni a Fca (peccato non possa “convocarla”), vagheggia un «buon piano industriale» per Alitalia escludendo che sia decotta, banalizza sull’acciaio verde di Ilva come presupposto per lo Stato padrone, sottovaluta la cattiva politica estera verso la Cina sul 5G. Temi tutti caldi, a nessuno dei quali offre una soluzione netta. Persino per i decreti Salvini la colpa è del coronavirus, non di aver atteso sei mesi per affrontare prima il problema. E zitto sulla sanatoria migrazione, direttamente connessa, confermando così che è tutta roba di Renzi.L’unica notizia è quella della convocazione delle aziende. L’immagine di scolaretti che si fanno dire da Conte e Patuanelli cosa devono fare è di per sé deprimente, visto che di più il Governo non potreb
be fare, ora che i capi azienda li ha confermati.Il posto della politica è in Consiglio dei Ministri, l’interlocutore è il Parlamento, non Storace e Descalzi. È lì che si deve costruire l’idea di Paese che deve uscire dai guai in cui si trova. Persino Colao, con tutte le emergenze che ha dovuto affrontare insieme ai suoi uomini e ora le sue donne, ha pronto un piano. Da Conte 2 a Colao 1?