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Edizione del 11/12/2022
Estratto da pag. 1
Il modello vesuviano e il diktat di Emiliano - CorrieredelMezzogiorno.it
Centrosinistra o sinistra. Questo è il dilemma di fronte al quale si trova il Pd
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Sullo stesso numero del Corriere del Mezzogiorno di ieri, anzi sulla stessa pagina, si condensava in poche righe quale sia il vero contenuto politico dello psicodramma del Pd, e quale sia la scelta che quel partito deve fare se vuole continuare ad esistere. Da un lato un articolo di Pier Paolo Baretta, oggi assessore al bilancio di Manfredi e da tempo esponente riformista a 24 carati. Vi si sosteneva che il «modello Napoli» è esportabile, in risposta a una mia Politeia di domenica scorsa, in cui scrivevo che non era esportabile. Sembrerebbe un contrasto, ma in realtà Paolo e io siamo in sostanziale accordo.



Lui dice infatti che l’alleanza larga che ha portato Manfredi a un ampio successo nelle recenti elezioni comunali può e anzi dovrebbe essere esportato a tutti gli altri enti locali in cui si elegge direttamente il sindaco con il sistema elettorale del doppio turno. E aggiunge che forse un giorno si potrebbe tentare la stessa strada anche a livello nazionale se, e solo se, si rispettano le condizioni che hanno consentito la vittoria a Napoli. E cioè la «trasversalità» della proposta politica di Manfredi, la cui coalizione comprendeva sinistra e centro, moderati e radicali, ma soprattutto si rivolgeva a tutta la società napoletana, dagli strati più deboli alla borghesia professionale, dalle periferie al centro della città. Solo così si vince con il 65%, dice Baretta. Egli stesso precisa che la sua analisi, che a noi pare realistica, è ben diversa da quella che Goffredo Bettini ha proposto proprio qui, presentando il libro di Fassina da cui è nato il nostro dibattito, secondo la quale a vincere a Napoli sarebbe stata un’alleanza delle sinistre, tra Pd e 5Stelle.

In pratica, Baretta riporta all’onor del mondo una parola oggi dimenticata e vituperata, e ciò «centrosinistra»; che pure è stata la ragion d’essere del Pd, il partito che si candidava a rappresentarlo tutto, e che ha rappresentato la chiave dei suoi successi elettorali, quasi tutti avvenuti nei comuni proprio grazie al sistema elettorale a due turni, l’habitat migliore per far vivere un’alleanza tra diversi. Io penso che Baretta abbia ragione: solo il centrosinistra può battere «le destre», come ogni viene chiamato l’ex centrodestra. E solo il centrosinistra ha dimostrato nel tempo di avere la capacità progettuale, l’ambizione progressista, il respiro riformista che serve per ampliare i propri consensi a una porzione maggioritaria della società. Non a caso Baretta si sofferma sulla qualità e l’innovazione del programma che ha gonfiato le vele di Manfredi, dopo tanti anni di cattivo governo, e l’ha portato alla vittoria.

Nella stessa pagina, invece, un’intervista a Michele Emiliano proponeva una visione delle alleanze politiche e un’idea del messaggio che il Pd dovrebbe mandare all’elettorato diametralmente opposte. Il governatore pugliese, che insieme con De Luca sembra prepararsi a sostenere, come sempre, il candidato favorito alla segretaria del Pd, e cioè Bonaccini, approfitta delle primarie per alzare il prezzo dell’aiuto meridionale al vincitore. E gli pone due condizioni: mai, dico mai, allearsi con Calenda e Renzi, praticamente con il centro o con i riformisti al di fuori del Pd, perché «con queste persone non possiamo avere nulla a che fare né ora né mai»; e sempre, dico sempre, allearsi con i Cinquestelle, perché «sono gli unici alleati possibili, perché il fronte del progresso in Italia è fatto da Pd e M5S». A parte il fatto che è una novità sentire dalla bocca di Emiliano, uno che per vincere le elezioni in Puglia si è alleato anche con gli ex missini, tanta intransigenza morale sulle alleanze con Calenda e Renzi, è comunque significativo e quasi emblematico il contrasto delle due linee espresse nella stessa pagina da due esponenti dello stesso partito.

Centrosinistra o sinistra. Questo è il dilemma di fronte al quale si trova il Pd. Vale solo la pena di ricordare, en passant, che la sinistra da sola è stata, è, e probabilmente sempre sarà mi
noritaria in questo paese, e anzi è capace di spaventare così tanto i ceti moderati da riuscire a coalizzare contro di sé un fronte abbastanza ampio da poterla battere agevolmente. Ancora oggi, alle ultime elezioni, i voti di Pd e Cinquestelle insieme arrivano a stento a un terzo dell’elettorato. Insufficienti a vincere. Mentre invece il centrosinistra, che non consiste solo in una somma di più soggetti diversi, ma è anche una proposta politica più aperta, più inclusiva, più costruita su programmi di governo realistici e riformisti, si è dimostrato più volte capace di vincere, nelle grandi città e anche in alcune regioni, con o senza i Cinquestelle.

Manfredi è l’espressione di questa seconda ipotesi, come correttamente scrive Baretta. Per trasversalità di proposta e anche di alleanze (è bene ricordare che anche Renzi lo sosteneva alle elezioni). Per questo il suo modello è esportabile, come scrive Baretta, lì dove l’elezione diretta a doppio turno lo consente (ed ecco perché anche il Pd dovrebbe battersi per l’elezione diretta del capo del governo, che per me si chiama «presidenzialismo»). Ma non è esportabile, come ho scritto io, a livello nazionale, almeno finché il Pd non torna alla vocazione maggioritaria per cui è nato quindici anni fa, respingendo le sirene che lo spingono oggi a inseguire le minoranze, nella speranza o nell’illusione che prima o poi, sommate, facciano una maggioranza.

11 dicembre 2022 | 09:30

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