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Edizione del 15/11/2022
Estratto da pag. 1
Autonomia differenziata senza livelli minimi di servizio, lo strappo di Calderoli
Dopo aver risciacquato i panni in Adige, Roberto Calderoli ha riscritto la proposta di legge con parole ancora più vicine ai desideri del presidente del Veneto Luca Zaia, il più acceso sostenitore dell'autonomia differenziata. E a fare le spese sono i Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, che in base alla Costituzione avrebbero dovuto già essere determinati in modo da individuare «i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» ma che nella versione annacquata in Adige saranno solo discussi per un anno e poi si potrà decidere di farne a meno. Partendo lo stesso con l'autonomia differenziata in tutte le materie, comprese istruzione, ambiente, lavoro, salute, beni culturali. APPROFONDIMENTI Migranti, Mattarella parla con Macron: «Basta scontri Italia-Francia» Sondaggi politici, Meloni verso il 30% Meloni a Bali per il G20 con la figlia Ginevra: per la prima volta una bambina nello staff del premier
La novità emerge dalla bozza che il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Calderoli, ha inviato alle Regioni, aggiornata rispetto a quella discussa a inizio novembre con Zaia, con il presidente della Lombardia Fontana e con quello dell'Emilia Romagna Bonaccini. Molti i cambiamenti, a partire dal numero di articoli saliti da sette a nove. All'articolo 3 della bozza (prima versione) si prevedeva che se per un anno si è discusso invano dei Lep, allora «si provvede con atto avente forza di legge», cioè i Lep sono comunque determinati dal governo. Cosa accade con la proposta attuale? L'obbligo ad approvare i Lep sparisce e se entro un anno non si approvano i Lep «anche le funzioni nelle materie di cui al comma 1 possono essere trasferite alla Regione», cioè istruzione, ambiente, lavoro eccetera.Una differenza non da poco, perché consente di regionalizzare la scuola prima di aver definito quanti posti a tempo pieno spettino agli alunni della primaria, ovunque residenti, quale assistenza agli studenti disabili e così via. Il risciacquo in Adige, inoltre, ha fatto sparire dalla bozza un passaggio dell'articolo 4 relativo alle modalità di finanziamento delle nuove competenze che aveva irritato non poco il Veneto: «i tributi propri». In pratica la Regione che chiede più poteri doveva esser pronta a finanziare in parte le spese utilizzando le tasse locali, come l'addizionale Irpef o l'Irap. Una scelta logica, visto che frammentare le funzioni pubbliche porta un aumento dei costi unitari, per la ragione inversa rispetto ai risparmi legati alle economie di scala. Ma al Veneto, come alle altre Regioni che spingono per ottenere maggiori funzioni, l'idea di pagare il prezzo dello spezzatino non piace, per cui puntano a ottenere i fondi direttamente dallo Stato, con una somma iniziale pari alla spesa storica, aggiornata anno per anno da una «Commissione paritetica Stato-Regione», che opera senza alcun controllo da parte del Parlamento, della Conferenza delle Regioni e neppure dell'Ufficio parlamentare di Bilancio. La nuova bozza, però, introduce due garanzie per il Mezzogiorno assenti nella prima versione, le quali appaiono meramente formali. In primo luogo si ribadisce che dall'applicazione di ciascuna intesa «non derivano maggiori oneri a carico della finanza pubblica» e si assicura che «è garantita l'invarianza finanziaria» per «le Regioni che non ne abbiano sottoscritte», come se il problema fosse il bilancio della Regione e non i servizi ai cittadini. Se la scuola sarà regionalizzata in Veneto e Lombardia e resterà statale con minori risorse in Campania e in Sicilia, le due Regioni del Sud non avranno buchi in bilancio, ma i loro cittadini riceveranno un servizio statale peggiore. Ancora più eterea è la garanzia introdotta nell'articolo 8 della bozza di legge, del tutto assente nella prima versione. Ecco il testo: «Le intese concluse in attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, non pregiudicano la promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, la rimozione degli squilibri e
conomici e sociali e il perseguimento delle ulteriori finalità di cui all'articolo 119, quinto comma, della Costituzione». Una sorta di excusatio non petita, una scusa non richiesta che dà forza involontariamente all'accusa che muove larga parte del Mezzogiorno al percorso di autonomia differenziata e cioè che ci si preoccupa di allargare le differenze senza avere neppure avviato la Perequazione infrastrutturale prevista da ventuno anni dall'articolo 119 della Costituzione e che dovrebbe mettere tutti i territori in uguali condizioni di partenza. La conferma della disattenzione al Sud viene dal fatto che la Perequazione infrastrutturale doveva iniziare, dopo mille rinvii, entro il 31 marzo 2022, almeno secondo le «disposizioni urgenti in materia di perequazione infrastrutturale» del decreto 121 del 2021. Disposizioni che tuttavia non sono state ritenute urgenti. Per il resto, la bozza Calderoli conferma nell'ultima versione la marginalità del Parlamento, cui è chiesto un parere non vincolante da esprimere in pochi giorni tramite una commissione bicamerale, più il voto finale di mera approvazione dell'intesa. Resta quindi l'irreversibilità del percorso di differenziazione e, addirittura, la durata dell'intesa è illimitata persino nel caso in cui l'intesa Stato-Regione abbia una data di fine. Infatti alla scadenza del termine, l'intesa «si intende rinnovata, salvo che lo Stato e la Regione assumano l'iniziativa congiunta di modifica o cessazione». In pratica la Regione avrà il diritto di veto sui ritocchi all'intesa: ogni presidente di Regione diventerà un don Rodrigo in grado di dettare legge all'intero Paese.