“Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono di destra, sono cristiana, sono italiana”. Stefano Rolando ci racconta il pensiero della Meloni, Premier in pectore.
Stefano Rolando
I paradigmi di Giorgia Meloni per sostenere, oggi da capo della maggioranza, che la cosa più importante è la sua coerenza. Una recensione con trenta citazioni – dopo oltre un anno dalla pubblicazione del libro – a scopo di indagine programmatica sulle linee del prossimo governo. Anche se la biografia si occupa di radici, non di programmi Stefano Rolando spiega ai lettori di Democrazia futura “Cosa ci si può aspettare da Giorgia Meloni leggendo la sua autobiografia”.
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Ho versato 2€ personalmente a Giorgia Meloni, in diritti d’autore, acquistando e leggendo la sua autobiografia scritta e pubblicata con Rizzoli nel maggio 2021 al riparo dell’imminenza di elezioni, a governo Draghi avviato e in piena azione, nel suo ruolo di maggior soggetto dell’opposizione parlamentare e per segnalare (anche in copertina) il principio ispiratore di tutto il suo percorso: “la sfida che ho imposto alla mia vita è riuscire a rimanere me stessa, costi quel che costi”[1]. Per la coerenza, dice Giorgia (Io sono Giorgia, è il titolo del libro inteso come un frammento oratorio divenuto cult), si paga anche qualunque prezzo. La lettura oggi – dopo i tumulti post-elettorali, soprattutto quelli in seno alla maggioranza parlamentare tra le elezioni dei vertici istituzionali e la possibilità di formare un governo – non è dunque per una recensione letteraria (in ritardo). Ma per verificare i punti che perimetrano realmente il suo principio di coerenza e al tempo stesso i vincoli alla flessibilità. Flessibilità che si dà per scontata nel passaggio della Meloni da movimento di opposizione a perno degli assetti di governo, ma che forse – dopo l’ultimo venerdì e sabato di metà ottobre – deve essere considerata una flessibilità con limiti. Da capire meglio.
Questa autobiografia
Lo schema del libro è quattro capitoli e otto paragrafi. Seguirò questi snodi per cogliere le affermazioni di principio e le ipotesi che ne limitano “programmaticamente” facili varianti.
Questa autobiografia non è un prodotto d‘ufficio, una trovata pubblicitaria, un copia e incolla di qualche intervento d’occasione.
È una intelaiatura abbastanza meditata di un percorso lungo quanto lo può essere lo sdoganamento della destra italiana dal reale vissuto post-fascista – dunque una storia “dopo Fiuggi” – alla ricerca di un presidio dell’identità nazionale tema progressivamente abbandonato da una sinistra che tagliando la prima Repubblica ha finito anche per tagliare le radici risorgimentali italiane.
Il forte radicamento romano di Giorgia Meloni continua a conferire a questo percorso le forme e i colori di una reincarnazione nelle nuove generazioni del fascino della “fiamma” – tanto che quel simbolo non uscirà mai di scena nelle trasformazioni dal Movimento Sociale Italiano (MSI) a oggi – e la stessa selezione della principale classe dirigente risente di questo timbro.
Ma Giorgia Meloni ci mette del suo.
Cosa che ha un punto di evidente forza nell’orgoglio e nella tenacia di una donna che parte da una condizione socialmente modesta e da una famiglia lesionata, per imporsi in una cultura e in una forza politica apertamente maschilista e machista, arrivando al risultato di queste elezioni che stabilisce un primato che le donne in politica nel centro-sinistra – militanti in forze formalmente a favore delle pari opportunità – non hanno né perseguito né raggiunto. E che si esprime come una condizione di comando effettivo (per la quale l’autobiografia assume una certa importanza, perché contiene rivelazioni sulla formazione della “linea politica”) in cui si sviluppano, con tappe che scorrono nell’ultimo decennio, episodi di non subordinazione a Silvio Berlusconi e anche a Matteo Salvini, impensabili per chi partiva da un rapporto di forza elettorale quasi marginale.
Il co
nflitto di questi giorni con Silvio Berlusconi va tuttavia al di là del rapporto di forza e si iscrive anche in un ribaltamento di costume in cui si sono consumati nel recente passato brutti episodi per l’etica pubblica e per la reputazione della politica italiana.
Ciò che il libro non contiene
Naturalmente va detto che la suggestione di ciò che il libro contiene – per le cose qui richiamate – non deve far perdere di vista ciò che il libro non contiene. In generale, non contiene in forma esplicita nessuna proposta di governo. E poi:
Non contiene l’indulgenza (che ancora esiste) verso la storia del fascismo italiano, sia quello insorgente, inteso come movimento nazionalistico, sia quello declinante, come patriottismo repubblichino di “fedeltà” e contro il “tradimento”.Non contiene una sufficiente teoria di gestione della complessità economica e sociale del Paese. Non contiene le argomentazioni di base sulla geopolitica italiana oggi adottabile nel quadro di noti vincoli.Non contiene spunti utili per capire come in sostanza mediare il rapporto con i pro e i contro della globalizzazione.Non contiene valutazioni esperte e responsabili circa il modo di stare nella cabina di regia dell’Unione europea.Non contiene un’analisi moderna della mancata riforma dello Stato e non contiene una percezione sociologicamente originale sulla crisi del rapporto tra società e politica.
Quindi non è il “cahier de charge” per governare da fine ottobre l’Italia.
È però il diario di bordo della formazione di una leader che si è fatta largo nella crisi politica italiana, non partendo né dai salotti, né dai palazzi di potere.
Dunque, Giorgia Meloni parte da una condizione che si pone alla testa della necessità di ridurre il tasso di antipolitica a cui è giunta l’Italia.
Va doverosamente aggiunto che nel libro non ci sono nemmeno un paio di segnali – di questi giorni – che è giusto inventariare: Giorgia Meloni dichiara l’inaccettabilità del crimine nazifascista in occasione dell’anniversario delle catture degli ebrei del ghetto di Roma e Ignazio La Russa sottoscrive “parola per parola” l’intervento in aula della sen. Liliana Segre. Si dirà “parole”, ma tutto il contenuto di questa ricognizione è fondato sulle “parole”.
Mentre scrivo questo mio articolo esce anche un podcast dedicato al commento delle elezioni dei presidenti di Senato e Camera che si intitola “Il cristallo della impresentabilità”[2] in cui, tra l’altro, dico:
“Se si comporrà la frattura Meloni-Berlusconi, la formazione del governo avverrà – pur con cautele imposte dalla cornice internazionale che regola i fondamentali del posizionamento dell’Italia – nello spirito che Giorgia Meloni coltiva di più, per dimostrare la pochezza degli altri e soprattutto dei suoi alleati – cioè secondo quello che chiama il suo principio di coerenza, argomento che non si può trattare in astratto solo come una virtù. Perché bisogna fare chiarezza definitiva sull’aspetto ovvio: di quale coerenza si tratta? Chi ha letto l’autobiografia di Giorgia Meloni non è affatto sorpreso di quanto sta accadendo”.
Ecco, in questa sintesi credo stia il senso di questa recensione, che in un certo senso completa quel podcast.
Il principio (fierezza e qualche eredità di cultura repubblichina) del “non rinnegarsi”
“Il punto è che questo libro non vuole essere il manifesto teorico della destra italiana. Può al massimo rappresentare il racconto di una vita spesa a far crescere quella destra senza rinnegarsi”.“Sono a un punto di snodo della mia vita. Abbastanza avanti da poter incidere, ma non ancora libera dal rischio di perdermi”.“Al termine del percorso, ognuno di noi dovrà rispondere a questa domanda implacabile: sono riuscita a cambiare qualcosa del sistema, oppure ho lasciato che fosse il sistema a cambiare me?”.
Molti nemici, molto onore
“A distanza di anni ringrazio quei cafoni. Loro per primi mi hanno insegnato che i nemici sono utili. Uno sprone a fare cose che altrimenti pensi di poter rimand
are, a superare i tuoi limiti e correggere i tuoi errori”.
In questa parte degli anni di formazione ci sono anche passaggi severi ma belli, come questo:
“Sono cresciuta con l’idea di non meritare niente e la mia reazione è stata quella di impegnarmi con tutta me stessa per dimostrare il contrario […]. È la ragione per cui sono così puntigliosa, così caparbia, così disposta al sacrificio”.
La destra, fuori dal sistema, approdo contro ruberie e corruzione
“Il Movimento Sociale Italiano era del tutto estraneo alle ruberie e alla corruzione che venivano scoperchiate in quegli anni e fu inevitabilmente protagonista di quella tumultuosa stagione di passaggio […] Più per istinto che per decisione ponderata mi rivolsi al Fronte della Gioventù”.
E in questa parte fa sorridere la percezione di essere finita in un ambiente iper-maschile, dovendo aprire un lungo sentiero verso la propria legittimità di genere:
“Quel giorno portavo un più sobrio maglione blu, pantaloni blu e una camicia a scacchi bianchi e rossi. Figuriamoci se mi sarei presentata in tuta rosa (come qualcuno ha scritto) al Fronte della Gioventù. Ero piccola ma un po’ di buon senso, ecco, ce l’avevo”.
La frequentazione di inizio carriera politica di un ambiente scambiato per un centro sociale caratterizza figure che al tempo erano sembrate a una ragazzina tosta (soprannome Calimera), ma anche “composta”, dei brutti ceffi, è riportata all’oggi con una certa serenità di analisi evolutiva. Sono tutti diventati parlamentari, presidenti, consiglieri dell’evoluzione, appunto, di quella storia in Fratelli d’Italia:
…il Lungo, per l’appunto, al secolo Marco Marsilio, oggi presidente della Regione Abruzzo per Fratelli d’Italia […]; Peo (un tipo con i capelli lunghi, la barba e un chiodo di pelle da cui spiccava la spilletta dei Ramones, ma non sarò finita in un Centro Sociale, pensai […] o meglio Andrea De Priamo, oggi nostro capo-gruppo all’assemblea capitolina […]”; le squadre delle affissioni, se c’era un problema convergevano lì, in aiuto, ho conosciuto così il gruppo di Fare Fronte, gli universitari allora capitanati da Marco Scurria, detto il Noto, che in seguito è diventato nostro europarlamentare…; eccetera.
Nuove radici culturali e politiche
Questa tematica scorre per pagine attorno agli archetipi culturali del “tradizionalismo” adattato ai quartieri periferici romani: dal Signore degli Anelli all’Ultimo Samurai con Tom Cruise. Fino a Le Porte di fuoco di Steven Pressfield, dedicato al coraggio, sui trecento soldati spartani guidati da Leonida che tennero testa al potente esercito di Serse. Il punto di riferimento programmatico, insomma, riguarda la radice culturale europea:
“Si dice che siamo antieuropeisti: è totalmente falso. Basta ascoltare le canzoni della cosiddetta musica alternativa, come Sulla strada del gruppo Compagnia dell’Anello, canzone sull’Europa dei popoli e delle patrie”.“Quando nel 2019 il primo ministro ungherese Viktor Orban è stato ospite ad Atreju, nel suo discorso ha ringraziato l’Italia e ha detto: “Fu scritta da italiani la canzone più bella sulla rivoluzione ungherese del 1956, che comincia dicendo Avanti ragazzi di Buda”. È stato un attimo. La platea ha preso a cantare, prima piano, poi sempre più forte, in piedi (…) in oltre vent’anni di Atreju credo che quello sia stato in assoluto il momento più emozionante”.
La storia della formazione politica nell’area post-fascista si conclude con l’evoluzione “naturale” da MSI a AN e in quella “innaturale” da AN al PDL. Un grumo di presente sta in queste parole:
“Per noi la svolta di Fiuggi, il passaggio da MSI a AN, fu assolutamente naturale. Per intenderci, tanti di noi hanno sofferto molto di più, anni dopo, il passaggio da Alleanza Nazionale a Popolo della Libertà. Fiuggi era un modo per rendere più appetibili le nostre istanze. La confluenza nel PDL rischiava di essere – e in parte fu – un modo per annacquarle e indebolire quel patrimonio”.
“Sono una donna”
Questa parte del libro è destinata alla discussione cruciale sulle forme per cui Giorgia Meloni ha conquistato la leadership in un’area politica caratterizzata da maschilismo e machismo, arrivando dove non sono arrivate le donne di sinistra cresciute in un contesto politico formalmente orientato alla parità di genere. Il resto del capitolo è un onesto scorrere l’album di una deputata giamburrasca ma che si applica con rigore e che a ventinove anni è vicepresidente della Camera dei Deputati tenendo a bada forse più l’insofferenza maschile che il conflitto destra-sinistra.
“Sono una donna e non avevo il phisique du rôle per guidare i giovani militanti di destra, in gran parte maschi. Come ho già detto non mi sono mai sentita discriminata, però ho sempre saputo che il capo deve essere un capo, deve dimostrare chi è il più forte, il più coraggioso, chi è quello capace di guidare la comunità oltre le difficoltà”.“Parte così, tra sorpresa, paura e una certa dose di iniziale irritazione, la mia parentesi nel PDL. Di quella fase ricordo soprattutto la paura di non riuscire a tenere insieme il movimento giovanile nella transizione, e la difficoltà che avremmo trovato ad amalgamare i nostri ragazzi, tra i quali c’era ancora girava in mimetica, con quei giovani rampanti in giacca blu e tacchi alti che avevamo sempre guardato con una certa ironia”.
“In mare aperto”
È il diario delle esperienze di governo. Silvio Berlusconi la chiama “la piccola” perché non ricorda esattamente il suo nome. Nelle foto di gruppo si sente “il brutto anatroccolo” di fronte alle curatissime ministre berlusconiane. Se la prende con Gad Lerner che ritiene che la trasformazione del nome del Ministero per le politiche giovanili in Ministero della Gioventù corrisponda a reminiscenze fasciste. Ma trova anche 300 milioni nelle pieghe di un bilancio che nemmeno Tremonti sapeva che esistessero. E mostra che la filigrana delle opzioni di governo hanno a che fare con il riscontro delle sue reali reminiscenze: certe durezze della vita del ceto medio e non agiato della popolazione italiana.
“Passavo le giornate a schivare insidie, affrontare i problemi, discutere, contrastare, combattere”.
Poi spara sull’ideologia della relazione tra droga e arte. Soprattutto dedica due pagine del libro allo sforzo di riportare nella visuale storica dei giovani l’Unità d’Italia e conferma che nel pantheon dell’idea di Nazione non si parte dal “nazionalismo” del ‘900 ma da Goffredo Mameli e Giuseppe Garibaldi. Le Olimpiadi a Pechino servono a ricordare l’impegno a sostenere la battaglia sportiva degli azzurri, ma anche a non tradire l’opportunità di alzare la voce sui diritti civili calpestati in quel Paese. Il passaggio più caricato di senso rispetto all’attualità di questi giorni è l’intervista al Corriere nel quadro delle rivelazioni sulle “raccomandazioni” tra le soubrettes televisive e Berlusconi. Il giornalista (Fabrizio Roncone) le strappa una dichiarazione pesante:
“Le raccomandazioni sono frutto di una società che non premia il merito, le protagoniste delle storie mi fanno tristezza, il comportamento di Berlusconi in quel frangente, da donna di destra, non mi è piaciuto”.
Il rimprovero le arriva da Ignazio La Russa, capodelegazione di FdI al governo. Il titolista del Corriere della Sera aveva calcato la mano: “Meloni: questo Silvio non mi piace”. Ecco il resoconto delle conseguenze:
“All’alba Berlusconi aveva chiamato La Russa arrabbiatissimo: “La ragazza mi ha già rotto le palle”. Le ore successive furono piuttosto complicate, tra mediazioni, spiegazioni, precisazioni, ma alla fine rimasi al mio posto (di ministro). Con un insegnamento in più nel mio bagaglio: se sanno fare il loro lavoro, i giornalisti non sono amici tuoi. Nonostante i rapporti di stima che, negli anni, ho costruito con molti di questi professionisti, non ho più abbassato la guardia”.
Di tutto questo percorso che la porta dalla Garbatella a essere presidente del raggruppamento europeo dei “Conservatori” e segretario di un parti
to che sta sfidando la più ampia maggioranza parlamentare degli ultimi anni, Giorgia Meloni ricorda alla fine il medico che le dà una prescrizione per il rischio di stress. Nessun farmaco è scritto sulla ricetta, ma una sola parola: “ballare”.
“Avevo e avrei ancora oggi bisogno di conquistare quella leggerezza che per carattere e per destino, mi è sempre stata preclusa”.
Madre ma anche lavoratrice maniacale
Il capitolo vorrebbe parlare della maternità e finisce per inventariare un cumolo di maniacalità sul lavoro.
“Il bisogno maniacale che ho di avere tutto sotto controllo produce tante altre conseguenze nella mia vita. Ad esempio, a differenza di ciò che molti potrebbero pensare, non ho mai avuto uno spin doctor”.
Lascio ad altre analisi lo spaccato della storia del suo amore più grande nella vita adulta, il padre dunque della sua creatura (che tuttavia contengono la controprova che “l’attimo di felicità” – lungo come la trasformazione di un neonato in una creatura relazionabile – ha un potere di immensa stabilizzazione rispetto alla disumanità della politica professionale) per cogliere ancora frammenti di politica in queste pagine più private. Sferzate all’antipolitica promossa dai Cinquestelle. Lo spazio dell’impegno nell’assemblea comunale a Roma. La tessitura di rapporti sociali e politici che stanno nell’agenda quotidiana. Ma insomma, niente di maiuscolo per la nostra indagine.
Le cose che contano
Con un titolo così non dovrebbero invece esserci delusioni. E infatti la partenza è su una controversia di percezione.
“Agli occhi del pensiero unico dominante io sono una bigotta. Un’impresentabile oscurantista, che si aggira minacciosa nel tentativo di mettere al rigo chiunque voglia favorire il progresso. Intendendosi per “progresso” questioni come la teoria gender, l’utero in affitto o l’aborto al nono mese”.
La tematica di riferimento è coerente con l’impianto della politica per la famiglia “contro il furore ideologico e contro il processo di denatalità” in cui il sostegno del matrimonio tradizionale è concepito non come una ingerenza negli affetti ma come “un sistema normativo per sostenere il miglior funzionamento della società”. È in queste pagine che prende corpo il convincimento di Giorgia Meloni sul segnale maturato nel centrodestra a favore della scelta (tutti e tre i partiti della coalizione) del presidente della Camera nella persona di Lorenzo Fontana.
“Oggi la famiglia, come nucleo fondante di ogni società e dell’identità di ciascuno di noi, è sotto attacco. Lo è come tutto ciò che ci definisce, perché per l’ideologia globalista l’identità in sé è il principale nemico da abbattere. Se ci fate caso, tutti i presidi identitari, tutto ciò che ci distingue, è avversato con ogni mezzo. La famiglia, come la nazione, l’identità di genere come la religione”.
Le venti pagine sulle “cose che contano” sono dunque l’articolazione di un pensiero di restaurazione del principio del “muro” che freni l’annientamento di ogni identificazione che i processi di globalizzazione perseguono. Non è riassumibile in poche parole. Ma è tuttavia un caposaldo di pensiero preliminare alle opzioni economiche e sociali.
Dunque: “sono di destra”
Si colloca solo a pagina 161 la sintesi dell’affermazione di parte. Motivata all’inizio dalle memorie di vita, poi dell’evoluzione di un pensiero sull’identità nazionale che reagisce al vento più forte del terzo millennio. La globalizzazione, che cancella molti confini e che, tuttavia, consegna anche moltissime soluzioni per affrontare le transizioni reali del nostro tempo.
Giorgia Meloni non si schiera con la mediazione. Si schiera con la difesa del “patriottismo”, riconoscendo che si dovrebbe riaprire un confronto con tutti i partiti italiani per rendere chiaro che cosa oggi ciascuno intenda per “patria” e per “identità nazionale”.
“Salgo i gradini di quella che è la nostra nuova e vecchia casa, entro a passi lenti, cercando di non farmi notare. Arrivo nel mio nuo
vo ufficio e mi chiudo dietro la porta. Il cuore mi batte forte, ma non sono mai stata tanto lucida come in questi istanti. Quello stesso ufficio una volta era di Gianfranco Fini e, prima di lui, di Pino Rauti e di Giorgio Almirante. Rimango in silenzio e a un tratto mi rendo conto dell’enorme responsabilità che mi sono assunta. Ho raccolto il testimone di una storia lunga settanta anni, mi sono caricata sulle spalle i sogni e le speranze di un popolo che si era ritrovato senza un partito, senza un leader, che aveva rischiato di smarrirsi”.
Addentrandosi nella politica degli ultimi dieci anni, Meloni rivendica il ruolo del governo Berlusconi “travolto dalle consorterie europee e dai poteri finanziari che imposero il governo Monti”, ricompone la squadra delle responsabilità della filiera della “vera destra” (“senza Ignazio La Russa e la sua esperienza non ce l’avremmo fatta”), ed è Fabio Rampelli a pensare alla fonte dell’Inno di Mameli per dare un nome alla rigenerazione di una forza politica fatta con figure ”sinceramente, convintamente, instancabilmente di destra”.
Anche qui il passaggio con Silvio Berlusconi è ruvido:
“Decisi di comunicare personalmente a Berlusconi la nostra decisione. Quando glielo dissi, a Palazzo Grazioli, mi rispose con quel suo fare pragmatico da uomo d’affari che ha imparato come tutto, e quasi tutti, abbiano un prezzo”.
E lì comincia la traversata del deserto:
“I miei interventi, quelli che oggi a volte diventano virali, non li ha praticamente ascoltati nessuno per cinque anni. Parlavo quasi sempre con l’aula vuota”.
La traversata produce un lento ma inesorabile progresso fino a materializzare il superamento di ogni soglia di esistenza politica autonoma.
La lunga parte finale del libro autobiografico – non tralasciando di segnalare i momenti di scoramento e di dubbio sulla sua stessa guida – arriva al profilo quasi attuale della posizione di contrasto al governo Draghi:
“Durante la mia dichiarazione di voto in occasione alla fiducia al Governo Draghi, ho citato una frase di Bertolt Brecht – drammaturgo tedesco antinazista, amatissimo dalla sinistra – per spiegare la scelta di Fratelli d’Italia di rimanere l’unico partito all’opposizione (“Ci sedemmo dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati”). Apriti cielo! A sinistra sono impazziti. “Come ti permetti tu di citare Brecht, è nostro”. Come se la cultura fosse di qualcuno e non di tutti”.“Dei miei amici rigorosamente di sinistra mi colpiva da ragazza la sicurezza, le infrangibili certezze che caratterizzano il loro modo di vedere le cose. Un assolutismo di idee e visioni che rendeva spesso sterile ogni dibattito e confronto: la loro convinzione di essere sempre e comunque dalla parte giusta della storia, anche quando la storia era chiaramente sbagliata, e le loro idee avevano prodotto orrori indicibili”.
La proiezione di questo posizionamento nello scontro aperto tra europeisti e sovranisti in Europa non è trattata nella autobiografia con la prudenza di chi sente di assumere responsabilità. Ma con il vigore di chi pensa venuto il momento di utilizzare queste responsabilità. E pensando al diritto dei paesi dell’est di stare saldamente legati alla loro identità nazionale dopo essere stati schiacciati (Meloni dice con la responsabilità dell’occidente europeo) sotto i sovietici, afferma:
“Con L’Europa ho un rapporto da innamorata delusa, ci ho molto creduto e per questo oggi sono amareggiata. Forse do più, arrabbiata. Con chi ha preso un grande sogno e l’ha trasformata nel parco giochi di tecnocrati e banchieri che banchettano sulle spalle dei popoli. Si riempiono la bocca degli insegnamenti dei “padri fondatori” ma in verità, nel loro nome, li hanno traditi”.
Una maggiore robustezza argomentativa si rintraccia nel capitolo dedicato all’appartenenza cristiana.
Che appare in qualche modo anche assistito da spunti culturali idonei a lanciare segnali fuori dal perimetro degli intellettuali militanti di questa destra che
non sono finora né famosi né così celebrati. C’è trattamento di verità nella umana e malferma professione di fede. C’è un inizio di trame sul rapporto tra religione, storia, patrimoni che una condizione prudente di governo potrebbe mettere a disposizione di sviluppi. Anche se essa qui si esprime ancora nel perimetro datato della rivendicazione delle “radici cristiane dell’Europa” che non ebbe fortuna quando ancora poteva essere costituzionalizzato e che oggi nell’ibridazione complessa dell’Europa faticherebbe a trovare vera condivisione.
Lo sguardo all’Europa – di sapore cardiniano (e probabilmente assistito da qualche studioso capace di contestualizzare bene gli spunti) – è abile, legato al rispetto dei patrimoni materiali e immateriali (la radice greco-romana e cristiana deve prevalere sull’insidiosità islamica), ma in fondo è pre-politico. E quindi con cadute retoriche. Come volesse dimostrare la stoltezza della critica all’antieuropeismo della destra italiana, ma che poi non fa luce sui temi della durezza e della complessità del tema del vivere nell’Europa dei contrappesi giuridico-procedurali e nella ancora più difficile manovra nell’Europa degli stereotipi e della reciprocità reputazionale.
Le argomentazioni sul rapporto con la religione – in parte per allineare sé stessa, in parte per collocare il tema nel posizionamento antagonista europeo – contengono materia per farci con trasparenza alcune domande.
Il fascismo non aveva visione religiosa e assumeva il potere con piglio anticlericale. Fece, ben inteso, “patto” con il Concordato e ciò lo rafforzò come rafforzò la componente conservatrice dell’episcopato. Questo tratto resta genetico nella storia repubblicana e anche questa ambiguità. Oggi questa ambiguità appartiene a tutte e tre le componenti della destra italiana. E il papato di Francesco (un po’ come è stata negli Stati Uniti d’America la presidenza di Barack Obama) scatena visceralità interne alle Chiesa e promuove nello spettro della politica italiana ed europea (nei paesi cattolici) coltivazione di una visione tradizionale e conservatrice.
Ecco, l’opportunità di intervenire – a volte anche con riferimenti non banali – nella autodefinizione di “cristiana” per avere, dopo le carnevalate di Matteo Salvini e il posizionamento personalmente contradditorio ma politicamente assonante di Silvio Berlusconi, un posto culturalmente più caratterizzante in quello che appare anche come un uso strumentale della questione religiosa, è tema che si proietta con molti interrogativi nello scenario della cristianità che nel mondo, in Europa e in Italia oggi permette di stare su due sponde molto, ma molto distanti.
L’ultimo tema “spinoso” è quello migratorio. Giorgia Meloni dichiara di essere incompresa. I giornalisti non leggono le sue analisi e le sue proposte. Non accetta l’omologazione alle semplificazioni salviniane e nemmeno che la si faccia passare per “disumana”. Pone la politica migratoria possibile all’interno del disegno “distinzioni e limiti”.
“Certo, pure a destra c’è chi fa demagogia. E c’è persino chi si spinge fino a toni di disprezzo e venature razziste. Ma non è il caso mio e di Fratelli d’Italia. Noi abbiamo sempre detto che l’immigrazione è una questione complessa che va governata in modo serio e che per farlo servono regole chiare e buon senso”.
E per finire: “sono italiana”
Il punto di sorvolo non è intellettualistico, tende a farsi mediana dell’opinione pubblica:
“Non ero mai stata al Festival di Sanremo, ma l’ho sempre guardato in televisione. Alcuni anni senza perdermi un minuto, altre volte rivolgendogli uno sguardo distratto. Penso di poter dire che il richiamo della principale manifestazione nazionalpopolare d’Italia sia sempre stato lì, ad attirarmi a sé, malgrado raramente vi abbiano partecipato i miei cantanti preferiti”.
A Francesco Guccini vanno affetti ma anche sentimenti di delusione. A Roberto Benigni entusiasmi. Poi gli eventi di solidarietà per calamità e disgrazie. Poi il punto tra comunità
e autorità. Un punto storicamente fragile.
“Un’Italia che ha un forte senso della comunità nazionale ma che diffida profondamente dei propri governanti, avendo la percezione – purtroppo spesso fondata – che chi governa non lo faccia nel nome della comunità, del suo bene e del suo futuro. E allora i innesca il circolo vizioso secondo il quale, se il comandante è inadeguato, scarso e menefreghista, allora i soldati si sentono svincolati dalle loro consegne. La sfida dell’Italia è proprio questa: riuscire a risolvere la sua grande contraddizione avendo una classe dirigente, uno Stato che siano all’altezza del popolo italiano e del forte sentimento di unità che gli italiani hanno più volte dimostrato”.
Il trattamento del tema è centrato sulla socialità. E si allarga alla resilienza nel tempo ormai lungo della pandemia.
La mia attesa di una parola per l’insufficiente riforma dello Stato è frustrata (ma avrebbe sinceramente molto appesantito la narrativa) e la mia attesa del contenimento di un eccesso di disuguaglianza e di analfabetismo di ritorno non trova nessuna corrispondenza in una parte del testo che preferisce tornare invece sulla relazione tra nazione e globalizzazione.
Aggredire il declino … ma in realtà poca analisi sulle prospettive e un certo pressapochismo
Il capitolo finale azzecca il titolo (Aggredire il declino). Ma non arriva a riequilibrare il limite di analisi di un inventario di percezioni, anche interessanti, ma che si è reso impermeabile rispetto alla critica sociologica (a partire, per esempio, dai rapporti annuali del Censis) che non riesce più a nutrire la narrativa politica che ha smarrito la domanda sociale.
Il libro, insomma, in questa parte racconta cronache di rapporti tra i partiti ma non contiene il punto di vista di Giorgia Meloni sulla crisi della politica e sulla dichiarazione della condizione di emergenza per insufficienza di una offerta politica dei partiti italiani relazionata ai concreti punti delle crisi (difetto comune ormai a larga parte del ceto politico).
Il libro è comunque alla fine e non ha più la spinta per acchiappare nuove idee su come fermare, ovvero aggredire, il declino. L’intuizione è giusta, ma l’artiglieria rimandata. Salvo rilanciare il tema di non compromettere la qualità della nostra democrazia. Ma lo schema della prospettiva italiana, essendoci poca analisi, si traduce anche in pressapochismo:
“Da una parte c’è il PD, partito “collaborazionista” delle ingerenze straniere, dall’altra Fratelli d’Italia, il movimento dei patrioti. Sono convinta che sarà sempre più questo il bipolarismo dei prossimi anni in Italia”.
Poi c’è il fardello dei temi in evidenza, c’è una parola di riguardo per Donald Trump e per il presidenzialismo italiano, c’è un auspicio per il Mezzogiorno e un auspicio per la cura del ferro nelle infrastrutture del Paese. Ma il brio della prima parte del testo si va perdendo nella preoccupazione di citare le voci in agenda.
Per fortuna la brevissima chiusa è dedicata con tenerezza alla piccola Ginevra, che ha la forza di commutare il linguaggio, riannodandolo alla linea diretta dei racconti iniziali.
[1] Giorgia Meloni, Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee, Milano, Rizzoli, 2021, 326 p.
[2] Stefano Rolando, “Il cristallo della impresentabilità”, Ilmondonuovo.club, 17 ottobre 2022. Podcast di 17 minuti. Lo si può ascoltare al seguente link: https://ilmondonuovo.club/il-cristallo-della-impresentabilita/.
Per saperne di più:
Democrazia Futura Sette
L'autore
Stefano Rolando, Professore di Comunicazione pubblica IULM e condirettore di Democrazia futura
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