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Dir. Resp.
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Edizione del 10/09/2022
Estratto da pag. 1
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Letta ostenta sicurezza sulla rimonta ma dalle parti del Nazareno le previsioni del tempo assicurano cataclisma. I sondaggi non possono più essere pubblicati ma le ultime rilevazioni consultabili, medie comprese, hanno raccontato una storia molto diversa. Un’imminente riduzione dello svantaggio è una chimera, nonostante le argomentazioni scelte dall’ex premier per accompagnare l’«Ecotour» in bus elettrico. «Penso di recuperare partendo dal fatto che gli stessi sondaggi dicono che il 42% elettori non hanno ancora deciso», ha insistito ieri il segretario a Milano, in un’intervista ad Antenna3. In realtà, sembra più probabile che il dato del Pd possa scendere ancora. Due considerazioni: l’elettorato di centrosinistra, specie quello dei dem, è per definizione quello meno soggetto a cambiamenti. A parte l’esordio del 2008, che comunque rappresentò una solenne sconfitta, e il 40% di Renzi alle europee del 2014, i consensi del Pd sono sempre stati più o meno gli stessi. A creare i distinguo, semmai, è spesso stato lo schema delle alleanze di riferimento, con i patti stretti volta per volta pur di stare al governo dopo le elezioni. La seconda considerazione verte sul metodo: Letta, che non ha voluto costruire ponti né verso il Terzo Polo né verso il Movimento 5 Stelle, è compresso tra due fronti su cui rischia di perdere ulteriore terreno. E c’è la sensazione concreta che il prossimo record segnato sia quello negativo. Del resto il Pd – a quindici giorni dal voto – le ha già provate tutte: dal sempreverde «pericolo fascismo» alle accuse infondate al centrodestra, che secondo i lettiani vorrebbe mettere da parte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella attraverso la riforma del presidenzialismo, passando per gli scenari catastrofici che vengono dipinti sul terreno economico e associati con puntualità al trionfo della coalizione composta da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Noi Moderati. La reale ragione dell’allarmismo dem è una sola: l’Italia, dopo moltissimo tempo, dovrebbe riuscire ad evitare, per almeno un quinquennio, che il Pd vada al governo a prescindere dal responso delle urne. Insomma tutte le armi dell’Italia «Democratica e Progressista» risultano spuntate. Anche l’argomento del «voto utile», dinanzi ad una sconfitta data per scontata, perde del tutto di significato. Così come allo stato dell’arte perde di senso lo strano ragionamento secondo cui il capo dello Stato avrebbe potuto dare l’incarico al leader del primo partito e non al vertice della formazione politica che otterrà oiù voti.
Poi c’è il futuro. Il dopo-Letta non è soltanto un affare da retroscenisti: persino i dirigenti del Pd hanno iniziato a discuterne a microfoni aperti, come nei casi dei ministri Dario Franceschini ed Andrea Orlando (che hanno aperto alle mancate dimissioni del segretario anche in seguito alla sconfitta). L’alternativa in pectore Stefano Bonaccini è tornato abbastanza silente. Sì, ogni tanto il presidente di Regione partecipa a qualche manifestazione da campagna elettorale ma l’impegno profuso – si deduce anche dalle pubblicazioni social – è soprattutto per l’amministrazione dell’Emilia Romagna. Letta avrebbe voluto che tutti i big territoriali del partito (Sala, Nardella, Gori e lo stesso Bonaccini) si candidassero in funzione di questa battaglia che è ritenuta campale. L’intera compagine si è ben vista dal levare gli scudi per una dirigenza che, se tutto dovesse andare bene, saluterà dopo una fisiologica fase di transizione. L’alternativa sono le dimissioni dal prossimo 26 settembre.
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