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Edizione del 21/07/2022
Estratto da pag. 1
ROMA. A Vittorio Sgarbi è bastata una passeggiata in Transatlantico per capire cosa si sta muovendo: «Nasce il partito di Draghi senza Draghi. Il dramma dell’area governativa di Forza Italia rivela che, intorno a Draghi, che verrà indicato dal centrosinistra come candidato premier senza iscriverlo in nessuna lista, si creerà un partito di nostalgici che ne chiederanno il ritorno nel prossimo governo con un definito peso politico». Era nell’aria da mesi. Subito dopo il Quirinale, e qualche settimana fa, quando è stata innescata la miccia che ha portato all’esplosione della maggioranza dell’altro ieri in Senato. Draghi è un brand che fa gola a tanti, a maggior ragione in una campagna elettorale improvvisa e inedita che ha diversi importanti limiti: non è stata preparata, sarà breve, in piena estate, ed è figlia di un trauma che ha scomposto i fragili legami delle coalizioni. Tutti questi motivi accrescono la convinzione che Draghi, l’opera del suo governo ma anche la sua fine, possano rappresentare un fattore psicologico determinante per il voto del 25 settembre. Il punto è come.Prima, però, va fatta una premessa. Nei calcoli di queste ore Draghi è un soggetto passivo. Non è lui a cercare incoronazioni, a dare segnali, a tessere trame. Anzi. Sentendo tutte le fonti a lui più vicine a Palazzo Chigi, si riceve sempre la stessa risposta. Il precedente di Mario Monti è ben chiaro all’ex presidente della Bce e non vuole replicarlo. Non farà la sua fine, dicono e ridicono i collaboratori. Draghi sente le strattonature alla giacca, dei leader che lo hanno sostenuto, ma non vuole dare alcuna sponda per una candidatura occulta come futuro premier. Né, tantomeno, si offrirà come candidato. Raccontano come in questi mesi abbia vissuto con un certo imbarazzo l’attivismo di Bruno Tabacci, sottosegretario, teorico da sempre del partito di Draghi. Quattro giorni fa a La Stampa diceva: «Se si andasse a votare, il centrosinistra dovrebbe presentarsi con una larga coalizione dichiarando fin da subito che, se vincesse, l’unico premier possibile sarebbe Draghi».Questa è la formula che si sta studiando in queste ore. E che ruota attorno all’idea di portare avanti l’Agenda Draghi. Riformismo, pragmatismo, europeismo e atlantismo. Il banchiere come vessillo contro Giorgia Meloni, contro le tentazioni sovraniste e populiste della destra. Un bipolarismo in cui la collocazione internazionale vuole essere un discrimine determinante. «Alle elezioni sarà Area Draghi contro Area Putin» sostiene Matteo Renzi, seguendo la cesura che rispecchia gli schieramenti di chi ha votato e chi no la fiducia al governo mercoledì in Senato.L’attuale legge elettorale si è dimostrata capace di generare magiche composizioni e ricomposizioni, ma nelle ultimissime ore il progetto di riportare Draghi a Palazzo Chigi sarebbe basato su una condizione. Che il Pd arrivi primo partito, per poter così ricevere l’incarico dal presidente della Repubblica, alla guida di una coalizione riformista .Il partito di Draghi è un carro buono per tanti su cui salire, ma per ora è solo un luogo dello spirito nella geografia indefinita delle forze politiche che bramano di tornare in Parlamento. Una somma di debolezze, soprattutto. Perché la variante Draghi è un sogno figlio di scissioni, della paura del vuoto e dei numeri troppo bassi di partiti dai consensi anemici che non hanno fatto in tempo a riorganizzarsi. Ma non c’è solo questo. La novità è che anche un partito in salute come il Pd guarda a Draghi come a una possibilità: «Deciderà lui se essere più presente e attivo nelle vicende della politica», ha detto ieri sera in tv Enrico Letta. È un effetto a caldo del disgusto rivolto al M5S e a Giuseppe Conte, indicati come i responsabili della valanga che ha travolto il governo. I prossimi giorni ci diranno quanto davvero il campo largo disegnato dal segretario Pd è morto o se il calcolo dei collegi lo farà opportunisticamente rifiorire. A parlare con l’ala di Base riformista guidata dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini potrebbe essere sostituito dal “campo per Draghi” dove accog
liere Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Renzi. Altri si vedrà, perché la competizione in nome di Draghi è alta, la corsa a intestarselo è già partita e l’affollamento è troppo per i pochi posti a disposizione. C’è Italia al Centro di Giovanni Toti, quel che resta delle ambizioni del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, quel rimarrà del progetto di Luigi Di Maio. L’esodo da Forza Italia e l’opa lanciata sul partito di Silvio Berlusconi da Renzi e Calenda sono altre incognite. Un’area che non è “di” sinistra ma, come diceva ieri ancora Sgarbi, «è “con” la sinistra». Un’area che secondo il sondaggista Nicola Piepoli varrebbe anche fino al 15%. Ieri tra i deputati girava la sua intervista all’agenzia AdnKronos: «C’è uno spazio notevole, ma servirebbe un’unione federativa, intorno ad un unico leader di cui tutti hanno fiducia». Impresa ancora più complicata che convincere Draghi dopo il voto.
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