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Edizione del 03/07/2022
Estratto da pag. 1
Il Draghi bis è uno scenario più concreto di quello che potrebbe sembrare. Non ci sono approdi certi, ma basta seguire i piani inclinati della politica, e nella mareggiata di questi giorni orientare le previsioni in direzione dei pochi punti fermi emersi. Ci sono dichiarazioni, tentazioni, movimenti tattici e abbozzi di strategie. Ma il Draghi bis è lo scoglio a cui si potrebbero aggrappare i partiti ben prima del 2023. Se la crisi fosse questione di ore o di settimane, e il M5s di Giuseppe Conte dovesse dire addio alla maggioranza, davvero Mario Draghi concluderebbe in anticipo la sua missione a Palazzo Chigi, come ha detto lo scorso giovedì in conferenza stampa? È stato esplicito, il premier, va detto: «È l’ultimo governo che guiderò in questa legislatura. Ed è un governo di cui deve continuare a far parte il M5S». Indubbiamente, non si può dire che Draghi non abbia lasciato una bella responsabilità a Conte. Ma davvero quella del premier è la sua ultima parola? Chi ha modo di frequentare il Quirinale consiglia prudenza. Perché è vero che anche Sergio Mattarella, durante il loro colloquio di mercoledì, ha fatto capire al leader del Movimento che, caduto questo governo, non ci sarebbe altro che il voto anticipato. Ma in tanti ricordano come non fu troppo diverso con gli ultimi giorni del Conte II, quando dal Colle filtrava che, senza l’avvocato, si sarebbe scivolati verso le elezioni anticipate. Ora, nessuno scommette sullo strappo del M5S. Ma in caso accadesse, nei partiti in molti considerano improbabile che Mattarella, nel mezzo della guerra, con il costo dell’energia che rischia di trascinare il Paese in una crisi sociale, non convinca Draghi a tornare alle Camere per verificare l’esistenza di una maggioranza senza il Movimento (ma con i parlamentari di Luigi Di Maio) o di quello che ne resterebbe in piedi. Nuova fiducia e nuovo governo, dunque. Unica incognita è cosa farà la Lega di Matteo Salvini. L’effetto domino va tenuto in considerazione: se il Carroccio scegliesse di seguire il Movimento, trovare una maggioranza credibile sarebbe arduo. In caso contrario, il Draghi Bis si realizzerebbe già in questa legislatura, una sorta di terreno di prova per le geometrie future di chi sogna di tenere Draghi a Palazzo Chigi anche dopo il voto. Già a febbraio, all’indomani dell’elezione del presidente della Repubblica, dopo che il presidente del Consiglio vide sbarrarsi la strada per il Colle, si parlò del «partito di Draghi». Un partito che ha l’ambizione di rivaleggiare con altri, senza formalizzare la sua leadership, e magari anche senza ridursi a un unico logo, ma come piattaforma per garantire continuità dopo le elezioni del 2023. I nomi sono rimasti un po’ gli stessi. Ci sono gli spin off, perché tutte le scissioni portano a Draghi. Carlo Calenda con Azione, Matteo Renzi con Italia Viva, Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, ex soci di Coraggio Italia. A loro si è aggiunto Di Maio. L’operazione di addio al M5s covava già lo scorso febbraio, quando spuntarono le prime indiscrezioni sulle ambizioni di Beppe Sala, i contatti del sindaco di Milano con Mara Carfagna, Beppe Grillo e Vincenzo Spadafora, co-regista della scissione grillina. E poi ci sono le “quinte colonne” del draghismo dentro i partiti, i fedelissimi del premier come il leghista Giancarlo Giorgetti o il forzista Renato Brunetta, che in un’intervista ha detto: «Perché affannarsi in coalizioni “bastarde”, quando esiste già un programma di cinque anni e oltre? » . Di questo scenario c’è chi parla con disinvoltura, chi sussurra e allude, chi tace ma, alle strette, acconsentirebbe, e chi si indigna. Alla prima categoria si sono iscritti i cosiddetti centristi: «Noi lo diciamo prima, gli altri si aggiungeranno più avanti», sintetizza con efficacia Osvaldo Napoli, ex forzista oggi deputato di Azione, sempre attento ai movimenti parlamentari, come quello di Di Maio, che in molti vedono come la base di un polo centrista che aprirebbe il cammino all’estensione di un governo di larghe intese. Ma al cantiere Draghi bis, (o persino ter) sono interessati in tanti, molti
più di quel che sembra. Le ministre del centrodestra non si espongono, ma hanno mandato diversi messaggi in questi mesi. Carfagna ha sottolineato più volte il concetto: «Non sprechiamo il lavoro fatto». Mariastella Gelmini ha chiesto, polemicamente, al suo partito di allontanarsi dai sovranisti, senza indicare approdi. Al centro i più attivi sono i parlamentari di Toti. Paolo Romani, senatore di Italia al centro, spiega che il tema di fondo è la legge elettorale: «Se restasse il Rosatellum sarebbe difficile rompere le coalizioni. E se una delle due dovesse vincere, difficile che sia disposta a rinunciare. In ogni caso serve». Con attenzione vengono poi analizzate le manovre del deputato di Iv Gianfranco Librandi, molto più attivo di Renzi nel cercare di mettere insieme «le forze razionali». Nei partiti più grandi nessuno si espone, dirsi a favore della prosecuzione dell’esperienza Draghi vorrebbe dire di fatto vanificare qualsiasi argomento in campagna elettorale. Così, sia Matteo Salvini che Enrico Letta hanno sottolineato come questa sia l’ultima volta che debbano sopportare il fardello di governare assieme. Ma se la Lega ha pagato a sufficienza la presenza in maggioranza, per il Pd il discorso è diverso: le chance del “campo largo” di vincere le elezioni sono scarse, soprattutto per la debolezza del M5S, e dopo il voto, il tema di un governo di larghe intese potrebbe tornare sul tavolo del Nazareno. Forza Italia resta ancorata al centrodestra, almeno così la pensa Silvio Berlusconi. Eppure Lega e Fratelli d’Italia, guardano con perenne sospetto gli azzurri, anche per un’attitudine governista dura a morire. «Vogliono i miei voti per farci altro?» , si chiede spesso in questi giorni Giorgia Meloni, ripetendo come un mantra, «noi non abbiamo piani B». Ovvero, o si governa con il centrodestra o niente. Parole nette, che qualcuno però, negli altri partiti, comincia a mettere in dubbio. Il suo rapporto personale con Draghi è solido e si è rafforzato con l’atteggiamento tenuto da FdI sulla crisi ucraina. E nel Pd qualcuno sussurra che se Fratelli d’Italia ottenesse un grande risultato, ma il centrodestra non vincesse, le elezioni, potrebbe entrare con forza nel governo Draghi, ovviamente.
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