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Edizione del 27/06/2022
Estratto da pag. 1
«Il governo esce rafforzato da queste amministrative». Parola di Enrico Letta, che subito dopo aver sorriso per i successi del centrosinistra nel voto delle città ha sottolineato come anche l'esecutivo guidato da Mario Draghi possa rallegrarsi per l'esito dei ballottaggi. Il motivo lo ha spiegato in conferenza stampa lo stesso segretario del Pd: «Con un risultato diverso, probabilmente ci sarebbero state conseguenze negative sulla stabilità dell'esecutivo». Invece no: la sfida appena conclusa, assicura Letta, «rafforza il lavoro del governo». Non è l'unico, il leader dem, a vedere per Draghi un bicchiere mezzo pieno all'indomani delle amministrative. La pensa così anche la capogruppo alla Camera Debora Serracchiani, secondo cui «il Pd è il perno del governo: più il centrosinistra si rafforza, più l'esecutivo può fare bene». Lo stesso, all'indomani del primo turno del 12 giugno, assicurava Carlo Calenda, forte di un risultato in doppia cifra da Nord a Sud per il suo terzo polo, dichiaratamente pro-Draghi anche come prospettiva per il dopo elezioni nel 2023.
Eppure, per il capo dell'esecutivo, l'esito delle urne di ieri potrebbe comunque far intravedere qualche ombra all'orizzonte. Perché se è vero che il buon risultato di Giorgia Meloni del "primo round" due settimane fa aveva spinto la leader di Fratelli d'Italia a lanciare una provocazione agli alleati di centrodestra («ora staccate la spina al governo», il messaggio non troppo velato consegnato a Lega e Forza Italia), mentre oggi la tentazione sembra giocoforza ridimensionata, c'è anche chi fa notare un possibile rischio per l'ex capo della Bce dalla batosta del centrodestra ai ballottaggi. La tentazione Per il momento è poco più che una suggestione. Ma la tentazione, tra gli uomini più vicini a Matteo Salvini, comincia a serpeggiare. Secondo alcuni tra i fedelissimi del leader leghista, che in molte roccaforti del Nord ha dovuto cedere lo scettro di prima forza ai meloniani, la soluzione per riguadagnare consensi verso le politiche è quella di allontanarsi dall'orbita del governo. Maracare le distanze da Draghi, su temi come il fisco e la guerra in Ucraina, in modo sempre più insistente man mano che si avvicina la primavera. Per ora, si diceva, è poco più di una tentazione. Il cosiddetto "partito" dei governatori (incarnato dal presidente del Veneto Luca Zaia e del Friuli Massimiliano Fedriga) insieme al ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti non ha alcuna intenzione di mollare l'esecutivo, mettendo a rischio pure i fondi del Pnrr. Ma gli occhi che guardano con sempre più rimpianto all'opposizione, come quelli di Claudio Borghi, non mancano all'interno della Lega. Il M5s Una situazione simile, ma ancor più esplosiva, si vive all'interno del M5S, dilaniato dalla scissione di 60 parlamantari proprio per i tentennamenti sulla linea della «responsabilità». È nel primo partito in parlamento che, incassato l'esito disastroso delle amministrative (col Movimento crollato intorno al 2 per cento nelle città), si moltiplicano da giorni le spinte per uscire dall'esecutivo. Giuseppe Conte nega, assicura che rimarrà fedele a Draghi. Ma le pressioni per rompere, tra i pentastellati (vedi critici dichiarati come Stefano Buffagni), si fanno più forti di ora in ora. Un rischio sottolineato anche da Luigi Di Maio. Che oggi torna a rimarcare la sua scelta di "stabilità", lanciando una sorta di invito alla desistenza agli ex compagni penstastellati. «I ballottaggi - le parole del ministro degli Esteri - hanno dimostrato che, tra quelli di maggioranza, reggono pochi partiti, cioè quelli che stanno continuando a sostenere con convinzione questo governo. Crolla, o in molti casi sparisce, chi invece non fa altro che creare fibrillazioni all’azione dell'esecutivo. Siamo in una fase storica dove le ambiguità, i populismi e i sovranismi devono lasciare spazio alla politica della concretezza». Si convincerà anche Giuseppe Conte?
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