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Edizione del 08/02/2022
Estratto da pag. 1
Un colpo al potenziale alleato ma rivale politico Matteo Renzi («Non lo riconosco più»); un giudizio sprezzante sui movimenti di altri protagonisti politici della sua area («A me il centro fa schifo»). E un obiettivo ambizioso e di lungo periodo annunciato con una certa sicumera: «Essere il perno» di una «maggioranza Ursula» (senza Lega ma con Forza Italia) che «porta di nuovo Mario Draghi al governo».
Oscurato durante la partita del Quirinale, nella quale non aveva carte parlamentari da giocare (i «suoi» grandi elettori si contano sulle dita di una mano) Carlo Calenda prova a tornare in pista da protagonista, con un’intervista a La Stampa, attribuendosi il ruolo di maieuta del «Partito di Draghi». Un partito che non c’è, e che – soprattutto – non ha alcun imprimatur da parte del diretto interessato, impegnato nella difficile opera di governare con una maggioranza confusionaria e litigiosa, una parte della quale (da Conte a Salvini) sembra più impegnata a fare gli sgambetti al premier che a occuparsi degli enormi problemi che stanno di fronte al paese.
Ma la speranza di un rimescolamento politico degli schieramenti e della nascita di un partito «draghiano» che possa essere centrale nella prossima legislatura anima i sogni e il lavorio di molti protagonisti e comprimari della geografia partitica italiana. Sono indiziati di operare in questa direzione ministri di primo piano e di diverse provenienze dell’attuale esecutivo, che non a caso sono stati indicati come sponsor della candidatura al Colle del premier: il leghista Giancarlo Giorgetti, che ha più volte evocato una nuova collocazione più moderata ed europeista del Carroccio (con il suo arruolamento nel Partito popolare europeo). I titolari di Esteri e Difesa, Luigi Di Maio (e proprio dal suo supporto al premier nasce lo scontro con Giuseppe Conte) e Lorenzo Guerini, che hanno lavorato di concerto per sventare il tentato blitz su Belloni.
Poi c’è la galassia «centrista», che pur dichiarando spesso intenti comuni, si muove disordinatamente e spesso in modo conflittuale. Calenda attacca Renzi e le sue presunte velleità centriste: «È stato uno dei migliori presidenti del Consiglio di questo paese, ma ritengo inaccettabile il suo modo di fare politica (e business) oggi». Quanto al centro «la parola mi fa schifo, ed è un esperimento destinato a fallire. Renzi, Toti, Lupi andranno a destra». Nessuna replica diretta da Matteo Renzi, che però scrive: «Il nuovo clima che si è creato (con la rielezione di Mattarella, ndr) mostra come l’area riformista sia stata decisiva in questa legislatura per sgonfiare i populisti. Senza l’iniziativa politica di Italia viva non avremmo mai avuto Mario Draghi a Palazzo Chigi».
L’evocato Giovanni Toti, invece, evoca un «centro» draghiano: «Lavoro con l’obiettivo di rafforzare una parte di politica centrale del nostro schieramento: dialogante, pragmatica, e capace di fare proprio il programma di modernizzazione del paese indicato dal governo Draghi». Non a caso il governatore della Liguria si trova, all’indomani delle elezioni per il Colle, a fare i conti con le richieste di «chiarimento» avanzate dal luogotenente salviniano in Regione Rixi, che gli rimprovera di non aver sostenuto la candidatura Casellati insieme al Carroccio.
Ma anche sul versante sinistro si registrano movimenti: «Le alleanze del Pd devono per forza essere allargate anche al centro», avverte il dem Andrea Marcucci, anche vista – ironizza, dopo la sentenza anti-Conte del Tribunale di Napoli – «la transizione del M5s che rischia di essere più lunga e laboriosa del previsto». E l’ex popolare Giuseppe Fioroni afferma che «il destino del Pd sta proprio nel farsi centro come è avvenuto in Germania con Scholz che ha rivendicato l’eredità della Merkel». Così in Italia deve nascere «una continuità pensata all’insegna di un Draghi sempre presente».
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