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Edizione del 29/01/2022
Estratto da pag. 1
Al Colle capigruppo e presidenti di Regione per chiedergli di restare. Poi il plebiscito: 759 voti, record nella storia repubblicana dopo Pertini. Letta: «Che fatica, ma che grande cosa». Di Maio: nel M5S serve riflessione. Il centrodestra è deflagrato, Salvini prova a rilanciare: ora vertice con Draghi
Quando lo spoglio sta per iniziare, Luigi Di Maio entra in Transatlantico come fosse un saloon e un gruppetto di parlamentari del Movimento 5 stelle comincia ad applaudire. Appena un antipasto di quello che succederà di lì a poco, alle 20.20, alla fatidica soglia dei 505 voti che certificano l’elezione: abbracci, vai Luigi, pollici alzati, un pugile che ha vinto il suo incontro. In un corridoio vicino, uno dei fedelissimi di Giuseppe Conte commenta: «Patetico». Mentre il presidente M5S spiega meglio quel che ha detto prima in conferenza stampa: «È andato contro la linea del Movimento, sono in moltissimi a dirmi che così non va bene, è una questione che dovremo affrontare». Al sesto giorno di votazioni per il presidente della Repubblica, al sospiro di sollievo del mattino – quando Matteo Salvini apre sul bis di Sergio Mattarella, seguito da una nota del presidente del Consiglio Mario Draghi che va nella stessa direzione – seguono, subito, i veleni, le veline, le dichiarazioni di chi corre veloce davanti a qualsiasi telecamera per poter dire: «Ho vinto io». O per aprire la resa dei conti: «Alcune leadership hanno fallito, creato divisioni», denuncia il ministro degli Esteri, onnipresente alla Camera in questi giorni, «nel Movimento serve aprire una riflessione politica interna». Si sente vincitore, vuole riscuotere il suo premio.
Hanno perso tutti, in realtà. Anche se davanti a quel «Mattarella» ripetuto 759 volte di seguito – il secondo presidente più votato della storia, dopo Sandro Pertini - scattano tutti in piedi dalle poltroncine di pelle amaranto. Chi è potuto restare in aula, come Letta, guarda con sollievo il suo gruppo. Più tardi, in Transatlantico, abbraccia Conte: «Che fatica, comunque una grandissima cosa». Il pericolo è scampato e nonostante tutto «il campo largo», come il segretario dem ha ribadito poco prima, ha tenuto. Ha frenato la spallata del centrodestra sul nome di Maria Elisabetta Casellati quando ha dovuto, lasciando che si vedesse plasticamente come a una candidatura istituzionale mancassero i voti degli stessi partiti che la proponevano. Ha lavorato per far crescere progressivamente il nome di Mattarella a ogni votazione, come un richiamo. Non troppo per non spaventare e vanificare ogni altra ipotesi, ma abbastanza perché si potesse arrivare al risultato di ieri. Con Matteo Renzi c’è stata un’intesa sui fondamentali, bloccare un candidato di destra, non su tutto però. Perché ancora ieri mattina il leader di Italia Viva aveva messo sul tavolo il nome di Pier Ferdinando Casini. Per tutta risposta, il segretario Pd si era alzato ed era uscito dalla stanza: niente contro il nome del senatore di Bologna - eletto sotto il simbolo del suo partito e poi passato al gruppo misto - ma quella scelta «preludeva a un disegno centrista che non è il mio», spiega più tardi. In testa Letta ha il centrosinistra. Anzi, l’Ulivo. Casini si fa da parte da solo non appena capisce che tocca, ancora, a Mattarella. «È la persona che invidio meno al mondo – confida a un amico – questi sono pazzi da legare».
E in effetti, la giornata che doveva essere quella della ricomposizione di un quadro politico, con i capigruppo di maggioranza che vanno in processione dal presidente della Repubblica per rappresentagli la volontà del Parlamento e ringraziarlo a mani giunte, come fa Loredana De Petris, e sentirsi dire con umiltà – lo racconta Debora Serracchiani – «farò del mio meglio», con i presidenti di Regione che fanno lo stesso, continua con una serie di ricostruzioni e accuse incrociate degne della settimana appena trascorsa. Fatta di piccole trame e grandi interessi: quello di Matteo Salvini di tenere in mano il centrodestra, fallito miseramente per i continui cambi di asse, i nomi bruciati, le in
temperanze poco adatte a un rito che ha bisogno di 505 sì e cui in questo momento serviva molto di più: un voto che non spaccasse la maggioranza di governo. Quello di Giorgia Meloni, che sperava in Mario Draghi perché tutto saltasse e arrivassero finalmente le urne, visto che i sondaggi premiano il suo partito più di ogni altro a destra. L’interesse di Conte di non mandare Mario Draghi al Colle, diventato giorno dopo giorno, ora dopo ora, quasi un’ossessione. Quello di Luigi Di Maio di fare il contrario, come avviene ormai praticamente su tutto.
A guidarli era il leghista Massimiliano Fedriga, che come il veneto Luca Zaia, come Giancarlo Giorgetti, tifava neanche troppo segretamente per Mario Draghi al Quirinale. Ma sembra ora soddisfatto di una soluzione che garantisce la stabilità di cui gli amministratori sentono il bisogno. «Alle condizioni date quella di Matteo è stata… - mormora appena Giorgetti - una vittoria… non poteva certo accettare Casini, no?». Di certo il passaggio non è indolore, con i parlamentari che avevano creduto alla ipotesi di Cassese, o di Casellati, o di una ipotetica donna, o uno dei tanti altri nomi inceneriti in poche ore da Salvini, che solcano perplessi il Transatlantico («sono entrato nel catafalco e la mano non riusciva a scrivere quel nome…», scherza o forse no Claudio Borghi) ed è proprio il ministro ad aprire un caso, quando in mattinata evoca le dimissioni dal governo. Tanto che nel pomeriggio Salvini improvvisa con lui una sorta di conferenza stampa in un corridoio di Montecitorio: chiederemo un incontro a Draghi, serve una nuova fase, ci sono chiarimenti necessari, elenca il segretario mentre il ministro con la sua presenza lì accanto fa da garante di una sempre più vacillante armonia nel Carroccio.
Le processioni verso il Colle, gli scatoloni già fatti, l’appartamento preso, una donna che attende di essere liberata da doveri istituzionali che mettono la vita quotidiana fra parentesi: sembrano il remake del film già visto nel 2013 con la rielezione di Giorgio Napolitano. Ai tempi era la moglie Clio, che tolse il saluto ai dirigenti dem che andarono a scongiurare il presidente uscente. Adesso, si è detto che è per far tornare al suo lavoro la figlia Laura, che il presidente avrebbe voluto lasciare.
La possibilità che potesse farlo lasciando il posto proprio a una donna come Elisabetta Belloni, Marta Cartabia, Paola Severino, è stata bruciata da una specie di corsa pazza ancor prima che se ne potesse parlare. «C’era un accordo su di lei con Letta e Conte», racconta Salvini difendendosi dall’accusa di aver solo giocato. «Avevo il mandato a trattare con la Lega proprio sul suo nome», spiega Conte, che il giorno prima aveva telefonato a Beppe Grillo per dirgli «è fatta, sarà lei, fai un tweet di sostegno così compattiamo i gruppi». Il tweet è arrivato quando il nome era già stato impallinato da Italia Viva, Forza Italia, sotto sotto anche da un pezzo di Pd. Spiega Letta paziente che «la disponibilità era subordinata a una verifica nei gruppi e con la maggioranza. Ma prima che la verifica si facesse era stata bruciata da dichiarazioni improvvide». I Cinque stelle continuano a rivendicare di averci provato fino in fondo. E che importa se la maggioranza si spaccava e poi si andava al voto.
Non sarà così. Ha scelto la forza «dal basso», dice Letta. I segnali dei peones, orchestrati però dall’alto, per arrivare al risultato. «Parlamentari euforici per non aver cambiato nulla e aver costretto Mattarella a un altro mandato. Cosa festeggiano? Che lo stipendio è salvo», è furiosa Giorgia Meloni. Per lei la rendita dell’unica opposizione al governo, ma anche il probabile isolamento. Centrodestra deflagrato, centrosinistra attraversato da diffidenze e sospetti: «Ora il rapporto Letta-Conte è più adulto», dicono nel Pd, a significare che si conoscono meglio, virtù, certo, ma soprattutto difetti. Per il governo, sicure fibrillazioni e poi chissà. Non passerà molto che si comincerà a parlare di legge elettorale, «questa giornata segnala la necessità di una riforma pr
ofonda della politica e della ricostruzione del sistema dei partiti», sembra invocare la discussione il vicesegretario dem Peppe Provenzano. Il giuramento del nuovo-vecchio presidente sarà giovedì. —
© RIP
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