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Edizione del 31/05/2021
Estratto da pag. 1
Il candidato che cambia troppe volte idea: Gaetano Manfredi
Escludeva la carriera politica e disse di non credere nella città, ma è diventato ministro e poi si è iscritto alle Amministrative
di Giancarlo Tommasone

Cambiare idea è umano e lecito, ma cambiare idea troppe volte, soprattutto in politica, è spesso sintomo di poca affidabilità e di trasformismo. Nei giorni scorsi abbiamo assistito al saggio record di dietrofront e contrordine che nell’arco di nemmeno dieci giorni, ha portato Gaetano Manfredi, prima a rinunciare alla candidatura a sindaco di Napoli, e poi a indossare la pettorina di iscritto alla corsa per Palazzo San Giacomo, sotto le insegne di Pd-M5S-Leu. Le argomentazioni che, alla fine, lo hanno convinto ad accettare, sono note, e vertono soprattutto sulle rassicurazioni ricevute relativamente al contrasto del maxidebito che interessa le casse del Comune. Tra un po’ di righe, ci ritorneremo.

Nel frattempo, restiamo in tema di cambiamento di idee, e andiamo a vedere cosa disse Manfredi, nel corso di una intervista rilasciata a Repubblica il 13 marzo del 2016. Domanda: rettore, è stato proposto a presidente della Regione, a sindaco di Napoli. Il suo nome ricorre, negli ambienti della sinistra. Risposta: «Sì, hanno provato a convincermi. Ma io faccio il rettore. E poi non credo in questa città. O meglio: credo molto nell’università. Molto meno nella città. Anzi, temo che il nostro sforzo per migliorare l’ateneo e con esso far avanzare lo sviluppo venga frustrato perché la città non ci viene dietro».

«Certo, gli inviti a candidarsi fanno piacere – continua Manfredi -. Ma io credo che per cambiare la nostra società ognuno si debba impegnare al massimo nel suo ruolo. La politica lasciamola fare ai politici». Più chiaro di così non poteva essere, non vi pare? Dopo quelle dichiarazioni – che è il caso di dirlo, lasciano il tempo che trovano – l’ingegnere di Ottaviano, la carriera politica la abbraccerà. E come. Il 28 dicembre del 2019, infatti, viene designato come ministro dell’Università e della Ricerca del Conte bis, poi, un anno e mezzo dopo si candida sindaco di Napoli («E poi non credo in questa città», ipse dixit).

Ma nel corso della citata intervista, Manfredi aveva pure affermato: «Attingere alla cosiddetta società civile, per incarichi politici, significa impoverire quella componente sociale il cui lavoro può essere davvero di aiuto». Di aiuto, certo, anche agli studenti e ai giovani napoletani. Peccato però, che da ex ministro all’Università e alla ricerca, da ex rettore della Federico II, Manfredi non abbia speso una parola che sia una, sulle scuole chiuse in Campania, nel periodo post lockdown. Peccato che non sia intervenuto su una situazione che – generata dalla linea lucchettara del presidente Vincenzo De Luca – ha condannato centinaia di migliaia di studenti campani a pagare uno scotto di cui ancora non si conosce l’entità (ma è sicuramente devastante per le nuove generazioni).

A proposito di De Luca, la vicinanza dell’ex rettore a Giuseppe Conte, il fatto che si divida anche con il nuovo leader del M5S, non lo entusiasmerebbe. E la cosa, naturalmente, non fa piacere nemmeno al Pd. E se è ipotizzabile che magari si preferirà passare su questa circostanza, nella logica dell’ubi maior minor cessat, stesso discorso non può essere fatto rispetto all’imbastitura della coalizione di centrosinistra. I partiti «minori» dello schieramento hanno fatto comprendere, o detto a chiare lettere che del tavolo, non si fa più niente.

Nelle scorse ore, Gennaro Migliore di Italia viva ha dichiarato: la coalizione non esiste più, parliamo solo con l’ex rettore. Mentre da giorni si assiste all’ammutinamento della base napoletana M5S, che non vuole candidati calati dall’alto. A guidare la ribellione il consigliere comunale Matteo Brambilla, ex candidato sindaco (alle Amministrative del 2016), che già nel 2017 aveva sfiduciato Luigi de Magistris, accusato di poca trasparenza sulla questione dei debiti che gravano le casse di Palazzo San Giacomo. Ecco il debito, è questo il terreno su cui si gioca la partita. Il debito che Giggino chiama ingiusto e che l’ex rettore ha ribattezzato storico. Nei giorni scorsi, Stylo24 ha titolato: I napoletani dovran
no «pagare» la candidatura di Manfredi.

Nel pezzo abbiamo affrontato l’argomento delle rassicurazioni chieste da Manfredi per candidarsi; la conditio sine qua non è rappresentata dalla manovra per l’azzeramento del passivo (che secondo i giallorossi ammonterebbe a 5 miliardi di euro). Una manovra che, da una parte, sarebbe garantita da un contributo annuale dello Stato. Dall’altra verrebbe finanziata con l’istituzione di addizionali commissariali. Vale a dire di Irpef e di altri tributi locali (inclusi i diritti di imbarco all’aeroporto di Capodichino o al porto di Napoli) da aumentare. Vedi pure: nuove tasse da far pagare ai napoletani.

E restando sull’argomento debiti, e su quello dei soldi che non entrano nelle casse di Palazzo San Giacomo (e che indirettamente aumentano il passivo), indovinate un po’ a chi appartiene il record di ente più moroso sul fronte della riscossione della Tari, nei confronti del Comune di Napoli. Proprio alla Federico II. La questione risale al 2017, quando Piazza Municipio fa presente all’Ateneo federiciano, che ha un debito complessivo di 69 milioni di euro, per la tassa sui rifiuti; debito contratto con il Comune in dieci anni, dal 2008 al 2017. Si tratta di ventiquattro milioni nel periodo 2013-2017, e di 45 milioni dal 2008 al 2012. Nel 2017, chi è rettore della Federico II? Gaetano Manfredi. Lo è diventato il primo novembre del 2014.

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