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Edizione del 07/11/2020
Estratto da pag. 1
Scuola, orari scaglionati e trasporto pubblico: come non ripetere gli errori del primo lockdown
Dopo il primo stop, l’Italia ebbe sei mesi per prepararsi. E fallì. Perché nessuno ha agito e i fondi stanziati sono rimasti inoperosi
di Federico Fubini07 nov 2020

Con le scuole superiori e parte delle secondarie di primo grado chiuse in quattro regioni (le ribattezzate «zone rosse») e milioni di studenti delle superiori a casa in tutto il resto del Paese, la domanda resta nell’aria del semi-lockdown d’autunno: risuccederà? Arriveremo di nuovo al giorno in cui le lezioni riprenderanno in presenza e ci accorgeremo di essere - ancora - tragicamente impreparati? In teoria, nell’idea di ripartire tra poche settimane, questa chiusura dovrebbe coincidere con il momento in cui si comincia a lavorare alla riapertura. Purché sia in sicurezza, di fronte a un virus la cui presenza è ormai endemica. E la sicurezza è data - fra le tante condizioni - da due legate fra loro: più trasporto pubblico locale e, se questo c’è, più scaglionamenti degli orari d’ingresso per evitare ressa sugli autobus, nelle metropolitane e davanti ai portoni delle scuole.

Dopo il primo lockdown, l’Italia ebbe sei mesi per prepararsi. E fallì. Ci facemmo trovare impreparati all’appuntamento del nuovo anno scolastico, il 14 settembre scorso. In quasi tutto il Paese, le scuole non avevano programmato scaglionamenti degli ingressi. Le Regioni e i Comuni non avevano rafforzato i trasporti in comune pur avendone le risorse (come il «Corriere» ha raccontato qui). Ripercorrere come fu possibile, in una cascata kafkiana di scarico di responsabilità di tutte le amministrazioni centrali e locali giù giù fino ai livelli più bassi, fa capire come l’intero sistema istituzionale italiano fatichi a mettersi al passo dell’emergenza. Vediamo allora com’è andata, perché il fallimento dei mesi scorsi vale da lezione per le prossime settimane. E perché, viste le lentezze dei mesi scorsi, non c’è tempo da perdere: il conto alla rovescia per preparare un rientro a scuola migliore è già partito.

di Redazione Economia

Sulla base di un rapporto dell’Inail di aprile, si individuano i momenti critici della giornata degli italiani: il picco della mobilità al mattino arriva tutti i giorni alle 7:21 a Roma, alle 7:29 a Milano, alle 7:30 a Torino e così via; non solo, si legge nero su bianco nel rapporto dell’Inail che circa il 20% di coloro che si accalcano su autobus, pullman, tram e filobus sono studenti. In gran parte delle superiori. Per questo il 28 maggio il Comitato tecnico-scientifico raccomanda per iscritto al governo una misura per prevenire la ripresa dei contagi: «Saranno da privilegiare tutti i possibili accorgimenti organizzativi al fine di differenziare l’ingresso e l’uscita degli studenti». Siamo a tre mesi e mezzo dalla ripresa delle scuole e la priorità, almeno, è stata individuata. Non a caso un mese più tardi nel decreto ministeriale 39 del 26 («Piano scuola 2020-2021») si fa un cenno - timido - a questo tema: «Si ritiene opportuno valutare, per le scuole secondarie di secondo grado dei grandi centri urbani, una differenziazione dell’inizio delle lezioni, al fine di contribuire alla riduzione del carico sui mezzi di trasporto pubblico nelle fasce orarie di punta». A questo punto mancano due mesi e mezzo alla ripartenza e il ministero dell’Istruzione parla dello scaglionamento come di un passo «opportuno». Non necessario, non obbligatorio. Non lo impone, non lo caldeggia neanche troppo. Semmai, tutto è demandato alle scuole stesse che - si legge nelle linee guida - «comunicano singolarmente o anche in forma aggregata gli orari di inizio e fine delle attività».

Passa altro tempo e traccia della stessa discussione riemerge il 12 agosto, quando ormai manca un mese alla ripartenza. È un documento della Conferenza delle Regioni e dell’Associazione nazionale comuni italiani, dal quale si capisce che nulla è stato fatto, né è chiaro come ci si debba muovere. Ecco il passaggio chiave: «Regioni e Comuni evidenziano la necessità di avere in tempi rapidi un quadro chiaro degli orari di inizio e fine lezioni (quadro ancora in fieri presso i tavoli coordinati dalle direzioni regionali del ministero dell’Istruzione) al fine di programmare servizi che evitino i pi
cchi di congestione della domanda di trasporto pubblico». In sostanza gli enti locali chiedono al ministero cosa devono fare, perché non lo sanno (o almeno così dicono). Va ricordato però che il governo giorni prima aveva stanziato 320 milioni di euro per permettere l’affitto mezzi privati e rafforzare così il trasporto pubblico locale. Ma su questo regioni e comuni, com’è noto, fanno pochissimo. Insomma tutti hanno capito che bisogna scaglionare gli orari di scuola, ma nessuno agisce.

Si arriva così alle «linee-guida Trasporti» allegate al Decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 7 settembre. La riapertura delle scuole è alle porte. Si legge: «L’articolazione dell’orario di lavoro differenziato è importante». Lo è, prosegue il testo, «anche la differenziazione degli orari delle scuole di ogni ordine e grado - queste ultime mediante intese, a livello territoriale con gli enti locali, nell’ambito di un coordinamento fra direzioni generali regionali del ministero dell’Istruzione e i competenti assessorati regionali all’Istruzione». In sintesi, ormai nell’imminenza della riapertura, il governo ancora una volta sceglie di non prendere una posizione netta. Rinvia la palla ai «tavoli» fra uffici decentrati dell’Istruzione e regioni. Nulla è pronto.

Ma cosa decidono questi tavoli? Per saperlo, il «Corriere» ha scritto a tutti gli assessorati all’Istruzione delle Regioni italiane e a tutti le direzioni regionali del ministero dell’Istruzione: 36 uffici (le province autonome di Trentino e Alto Adige fanno eccezioni). Dopo quattro giorni avevano risposto in sette su 36: entrambi i lati delle istituzioni in Lombardia, le Regioni Umbria, Toscana e Friuli Venezia Giulia, oltre alle direzioni regionali del ministero da Torino e da Palermo. L’impressione generale è che quasi nessun «tavolo» abbia deciso di scaglionare gli orari. Quasi sempre il barile è stato scaricato ancora più in basso, dando facoltà ai singoli dirigenti scolastici di scaglionare i tempi di ingresso e uscita. Ma questi ultimi non lo fanno quasi mai. In parte perché mancano i bus per portare i ragazzi a scuola in orari diversi (lo riferisce per esempio il Friuli-Venezia Giulia). In parte perché i presidi si sentono - comprensibilmente - lasciati soli a sfidare le ire di genitori e insegnanti, in caso di un cambio della routine delle giornate.

L’Umbria riferisce di non aver scaglionato gli orari perché ha «incrementato il numero dei mezzi di trasporto negli orari di ingresso e uscita». Il realtà però la regione aumenta la capienza di 101 mezzi, dunque per 5 mila persone al massimo, quando solo gli studenti delle superiori sono 39 mila (e poi ci sono i lavoratori): una goccia nel mare. Eccezione in questo caso è la Lombardia, dove lo scaglionamento arriva a riguardare il 56% degli studenti delle superiori. L’esperienza durissima della primavera ha lasciato il segno. Non a caso le città colpite più tragicamente nella prima ondata di Covid-19 scaglionano gli ingressi a scuola con più scrupolo in autunno: Bergamo (88,8% dei casi), Brescia (83,8%) e Milano (66,6%). Si spera al prossimo ritorno a scuola non serva un’esperienza così tragica per rimboccarsi le maniche.

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