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Edizione del 16/10/2020
Estratto da pag. 1
Gianni Cuperlo: “La politica è diventata solo scelta del leader, ritrovi idee e lotte”
A unirli è la curiosità intellettuale, molto poco “ortodossa”, e una passionepolitica che non si fa ingabbiare nei tatticismi e nel battutismo imperanti.Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd, vola alto nella suainterlocuzione con Goffredo Bettini. E Il Riformista è il luogo prescelto. In una intervista a questo giornale, Goffredo Bettini, interloquendo con MarioTronti, si è detto grandemente preoccupato per l’esaurimento della politica«non solo nelle sue espressioni più manifeste, ma per quello che segnala neimovimenti profondi della società». Condividi questa preoccupazione e da cosanasce questo esaurimento?Lasciami dire prima una cosa, il tuo dialogo con Bettini appariva straniato dalcontesto a cui siamo abituati e in parte assuefatti e questo restituisce al suomodo di ragionare un taglio che non appartiene all’ordinario. Parto da quiperché quell’esaurirsi della politica di cui parlano lui e Tronti ha molto ache fare con una riduzione del pensiero all’istante. Anni fa si criticavano gliamministratori perché vittime dell’ansia di tagliare nastri, inaugurare opere,e così facendo perdevano la capacità di progettare spazi e comunità nel medio elungo periodo. Ecco, la politica – i politici, categoria in sé da rifondare –hanno percorso un sentiero analogo e si sono predisposti a gestire un’agendache quasi mai scollina il trimestre. Il punto è che la società nelle sue millepieghe non è affatto un motore spento, anzi.Vuoi dire che la vera vitalità, anche sul piano culturale, la trovi piùfacilmente fuori dai partiti che dentro? E che questo vale anche per il Pd?Voglio dire che appena ti muovi fuori dal perimetro del professionismo questavitalità la incroci e noi un anno fa in quelle tre giornate di Bologna dedicateal mondo degli anni 20 lo abbiamo visto. Non sono solo le aggregazionistoriche, sindacati, categorie economiche, l’associazionismo organizzato nelwelfare, è un reticolo fitto di iniziative dal basso, spesso spontanee,esperimenti editoriali, penso a una realtà giovane come Pandora, vedo unritorno di interesse verso la formazione dopo decenni di ironie sulleFrattocchie. Quello che manca è uno sbocco di tutto questo in movimenti dotatidella forza manifestata in altre stagioni. Non sono vuote le piazze che perfortuna sanno anche riempirsi, dai ragazzi di Friday for Future alle Sardine. Amancare è la capacità di tradurre quella ricchezza in un punto di vista capacedi condizionare la politica o parte di essa. I movimenti, i grandi movimenti,questa forza l’hanno sempre coltivata, magari poi fallivano nella meta peròl’ambizione c’era. Il pacifismo, l’ambientalismo, il pensiero femminista, inquelle parabole era iscritta la volontà di rifondare l’identità della politica,il particolare conteneva una visione che investiva il resto.Mi stai dicendo che il problema non starebbe in ciò che sono diventati ipartiti ma in quello che non sarebbero più i movimenti?No, ti sto dicendo che se per un quarto di secolo avanza una liquidazione oliquefazione dei partiti senza più una lettura dei mutamenti, se si teorizzache l’identità della nuova aggregazione si riassume nelle regole statutariesulla scelta del leader, poi è difficile stupirsi di un progressivo desertodelle idee, almeno nel cuore della rappresentanza e questo finisce col togliereossigeno anche ai movimenti. Sai dove si misura di più questo scarto?Dove?Nella gestione del tempo da parte della classe politica. Oggi quel tempo èdivenuto una variabile irrinunciabile della competizione, dentro e fuori ilpartito. La giornata del dirigente o del deputato è scandita dal bisogno ditenere sempre acceso il canale web che lo lega al suo insediamento, si trattidi una quota di elettorato o di una posizione gerarchica nella propriacorrente. Abbiamo professionalizzato quella branca del lavoro intellettuale, manon nel verso indicato da Weber. Abbiamo preso contromano e derubricato lavocazione, il beruf, a “mestiere” dove sono richieste alcune capacità, ma diordine informatico e comunicativo. Estetica, profilo pubblico, linguaggio o lanarrazione hanno soppiantato percorsi che affond
avano in verifiche del grado dimaturità e competenza. Se oggi azzardi un ragionare simile non vieni compresoperché almeno un paio di generazioni hanno conosciuto solamente quella pratica.Proporne una diversa equivale a introdurre una nuova lingua che perònell’immediato non serve a presidiare la posizione acquisita e così si procedeper inerzia, ma impoverendo sempre di più l’insieme.Detta così pare una condanna senza appello della politica e di chi la fa.Invece no, perché se da un lato vedo il problema per come te lo descrivodall’altro a colpirmi è il fatto che sono i giovanissimi, i ventenni, amostrarsi meno dipendenti dai questi riflessi e allora mi chiedo se laprecarietà che vivono ogni giorno sulla pelle non li stia spingendo anche a unamodalità diversa di partecipazione e iniziativa. Se ci pensi nel No alreferendum la percentuale più elevata è stata la loro, come si fossero in partevaccinati dal riflesso populista della caccia alla “casta”.«Magari il problema fosse cancellare il M5S – sostiene Bettini -. Il problemasiamo noi che attraverso la politica non siamo riusciti a prendere le misure altumulto degli avvenimenti dopo l’89 e il ’92». È un ritardo incolmabile?Con parole diverse credo sia il concetto appena accennato. In quel triennio siè azzerato un intero sistema politico-istituzionale e ne è sorto un altro. Semetti a confronto la scheda elettorale delle elezioni del 1987 con quella del1994, nella quota proporzionale, vedrai che non un solo simbolo della primatorna nell’altra. Ora, quando si verifica un rivolgimento del genere di solitosi è consumata una guerra o una rivoluzione, nel caso nostro fu una rivoluzionepacifica anche se qualche vittima la produsse, ma non è stata accompagnata dauna revisione della missione in capo alle nuove identità che subentravano alvecchio.Rino Formica o Claudio Martelli ti direbbero che, più che una rivoluzione,quella fu una controrivoluzione servita solo a smantellare un ordine che avevaretto per quasi mezzo secolo senza costruirne un altro che non fosse ladistruzione dei partiti di governo.Guarda, non so se sia pertinente, ma con qualche forzatura preferireirecuperare la formula di Gramsci sulla crisi che «consiste nel fatto che ilvecchio muore e il nuovo non può nascere». «In questo interregno – aggiungeva –si verificano fenomeni morbosi». Una deriva giustizialista o lo stessoirrompere del populismo forse si debbono leggere anche così, come fenomenimorbosi che hanno trovato un terreno fertile nel disarmo della critica, in unasemplificazione al limite della banalità del discorso pubblico, nelrovesciamento del concetto di leadership, da avanguardia dotata del coraggio diuna strategia, se necessario in urto col proprio insediamento, al mito di un“capo” baciato dalla grazia di interpretare meglio umore e pancia del popolo.Però è proprio questa presa d’atto, combinata alla prova che la pandemia cimette di fronte, a imporre un altro impianto. E su questo, ti stupirò, ma sonoun incorreggibile ottimista, anche se sento che per riuscirci bisogna averel’onestà di riconoscere gli errori compiuti.«Avendo Veltroni gettato la spugna dopo aver ottenuto il 34% alle politiche, sirese manifesta la conclusione di quella stagione piena di speranze e che sololui in quel momento poteva interpretare al livello massimo. Da allora parlaredi una “vocazione maggioritaria” intesa come ambizione di occupare“fisicamente” tutto o la gran parte dello spazio del campo progressista edemocratico porta, come si è visto, solo all’isolamento, all’autosufficienzaboriosa, alla mancanza di iniziativa unitaria verso i possibili alleati. Sideve parlare piuttosto di “ispirazione maggioritaria”. Che significa un’altracosa: mantenere nella propria proposta e prospettiva politica una capacità diparlare a tutti gli italiani e di caratterizzarsi come una grande forzademocratica e nazionale». Bettini archivia quella stagione. Su questo concordi?Ma vedi, questo è esattamente uno dei limiti sui quali poco si è riflettuto. Laricordi la stagione di Veltroni alla guida del Pd? Dal discorso del Lingotto inavanti aveva suscitato un
entusiasmo vero e la sua campagna elettorale credosia stata la più coinvolgente degli ultimi decenni. Dopo la sconfitta onorevolealle politiche vennero le difficoltà che lo spinsero a lasciare, ma a nonconvincermi è l’idea che quel disegno – il partito a vocazione maggioritariainteso come venne inteso – sia tramontato per motivi soggettivi. Piuttostotendo a pensare che alcune premesse di quel disegno non abbiano retto la provae non perché Veltroni non c’era più, perché se un progetto politico è giusto lasua sorte non dipende dal singolo. Semplicemente quella vocazione maggioritariaera costruita su un’idea di società dove evaporava il conflitto, ma questoprosciugava il terreno sotto i nostri piedi. L’idea che oramai l’imprenditore el’operaio avessero gli stessi interessi e bisogni era una lettura checonfliggeva con la natura di vaste corporazioni serrate a difesa dei propritornaconti. La stessa spinta alla modernizzazione del Paese tendeva a dare diquel processo una visione ecumenica, priva di quelle scelte che inevitabilmenteti portano a indicare le priorità che persegui, quali parti della società vuoiemancipare e promuovere in una redistribuzione di potere.Non credi però che quel disegno in qualche modo ereditasse una impostazione cheveniva da prima e che aveva già portato la sinistra a pensarsi come lalegittima interprete di una cultura liberale da sempre assente nella borghesiaitaliana?Sì, questo è vero nel senso che a un certo punto, dagli anni ’90 in avanti,l’acronimo TINA (there is no alternative) da mantra della destra ci è penetratoin casa e abbiamo consentito a una precisa ideologia di presentarsi comericaduta della storia. Su questo Tony Judt ha scritto pagine illuminanti, mapotremmo citare Nadia Urbinati, Marco Revelli o Cacciari e Barca. Ora, appenasollevi questo tema la reazione, anche di parte del mio mondo, è dire che seiprigioniero di una vecchia cultura ostile all’impresa, ma questa è un’accusainsensata. Il punto è se accettiamo anche noi che destra e sinistra sianocategorie da archiviare e che la sfida sia tra innovatori e conservatori. Renzisu questo ha costruito parte del suo iniziale successo illustrando il concettoin una prefazione che Carmine Donzelli ha voluto per una ripubblicazione diDestra e sinistra di Bobbio. A noi rimane il rimpianto di non aver potutoleggere la postfazione di Bobbio alla nuova edizione però possiamoimmaginarcela.«Da quanto tempo la sinistra è attraversata dal mondo ed è, invece incapace diattraversarlo», si chiede Bettini. Ed ancora: «Da quanto tempo l’Occidente e lasinistra non riescono a proporre una visione, una idea di società?». Ti giro ledomande. A te le risposte.E io ti rispondo che non siamo in una morta gora e che c’è vita su Marte. Giàprima della pandemia c’erano elaborazioni che si muovevano in controtendenzarispetto a un mainstream trentennale. Atkinson, Piketty, Milanovic, e dopo lapandemia il lavoro di Vittorio Emanuele Parsi sulla vulnerabilità o il saggiodi Duflo e Banergijee su una buona economia per tempi difficili, le propostedel Forum Disuguaglianze e Diversità, permettimi di aggiungere il documentoRadicalità per Ricostruire che alcuni di noi hanno presentato a fine luglio eche stiamo discutendo in diverse città. Non sono le idee, compresa qualcheeresia, a difettare. Il punto è quale grado di permeabilità possiede una forzacome il Pd rispetto agli stimoli che riceve da fuori.Però proprio quel Pd e il suo segretario Zingaretti dalle ultime elezioni sonousciti più che rinfrancati.Assolutamente e con merito perché abbiamo fatto la campagna elettorale per noie pure per gli altri. Il voto è stato un successo per tanti motivi, l’ennesimasconfitta di Salvini, il governo uscito rafforzato, la conferma che glielettorati di Pd e 5 Stelle sono capaci di unirsi nel fare fronte contro ladestra. Zingaretti ha scommesso su una politica di unità del campo largo e afronte delle esitazioni spesso opportunistiche dei nostri alleati ha scelto difarsi comunque carico di quella responsabilità e le urne ci hanno premiato.Adesso però è necessario porre al governo il tema del
dopo, e la questione nonè prendere o meno il Mes (che per inciso è saggio chiedere), ma come siaffronta la seconda metà della legislatura dove si decideranno i destini delpaese per i prossimi vent’anni. Perché se quelle enormi risorse in arrivodall’Europa non le sapremo sfruttare nei tempi e modi giusti firmeremo unacambiale sul declino della società e dell’economia italiana.Più o meno è quanto ripetono tutti, da Cottarelli a Boeri passando per isindacati e Confindustria.Sì, ma con una aggiunta che mi permetto di fare. A questo punto, dopo la quartarecessione del decennio, compiere gli investimenti giusti, o se preferisci,fare debito buono, non dipende solo dall’efficienza della macchina pubblica, madalla capacità di inglobare parte di quelle nuove idee dentro l’agenda digoverno, insomma di ripensare con radicalità la nostra cultura lasciandoci allespalle suggestioni tardo blairiane che non parlano più né agli ultimi né aipenultimi e neppure ai tutelati di prima. Se diciamo che il Pd deve farsi pernodi questa sfida la conseguenza è avere il coraggio di presentarci al paese conuna identità coerente al cambio d’epoca. Vuol dire ritrovare i motivi di unasocietà non piegata sulla supremazia del profitto a ogni costo, assumere idiritti nella loro universalità evitando di riproporre la contrapposizione traquelli sociali e gli altri, considerare la parità di genere bussola dimodernità, indicare un modello di sviluppo dove gli indicatori del Pil trovinogiustizia nel valore che assegniamo loro e non nelle fluttuazioni di Borsa. Etutto questo collocando al centro il primato della dignità umana in ogni suaespressione a partire dal contrasto di quella “terza guerra mondiale a pezzi”di cui parla solo Francesco.Nell’intervista, Bettini cita Enrico Rossi che “in un incontro molto intensotra di noi osservava come il popolo è la parte di società che ha più diritto aincarognirsi nell’egoismo se ad esso si toglie il sogno di una cosa”.Il sogno di una cosa è il titolo del primo romanzo di Pasolini ed è unacitazione del giovane Marx, è l’idea che il mondo quel sogno custodisca datempo e che la prova da affrontare sia prenderne coscienza se la si vuolepossedere veramente. Per milioni di persone la traduzione a lungo sarebbe statail comunismo e Pasolini anni dopo la pubblicazione del romanzo avrebbedescritto i guasti della società italiana di allora, le stragi impunite e unamodernità omologante, con severità, ma avrebbe anche descritto il Pci come un“paese nel paese”, un grumo di passioni coltivate da un popolo consapevole delsenso di marcia. Tutto questo non ha evitato errori e a volte tragedie, ma seun ammonimento ci resta è l’idea che un partito non può mai ridursi a unprogramma di governo e un ceto politico che si autotutela. Se accade quelpartito in quanto tale semplicemente cessa di esistere e si dà vita a un’altracosa depurata di una sua etica ed epica. Attorno a noi è cambiato il mondo edovrebbe essere questa consapevolezza a spingerci verso una riscoperta dipassioni forti alla base di uno spirito di appartenenza. Del resto a vent’anniscegli la parte dove stare non perché ti fanno votare alle primarie, ma perchéla senti come la parte giusta della storia, quella più vicina ai tuoi valori ebisogni, alla tua utopia. Magari non sarà più il sogno di una cosa, micontenterei fosse il desiderio incompiuto di correggere il mondo per come è(Il Riformista, 9 Ottobre 2020)Tagcuperlo sul pd