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Edizione del 03/09/2020
Estratto da pag. 1
Bonaccini: «È la Costituzione a prescrivere la collaborazione»
Il presidente della Regione Emilia Romagna e della Conferenza Stato-Regioni: «Programmazione e semplificazione burocratica: è questa l''autonomia su...
A difendere il Paese dalla pandemia «il governo non ce l’avrebbe mai fatta da solo, così come ogni regione non sarebbe mai bastata a se stessa. A prevalere, come sempre dovrebbe essere, è stata la collaborazione istituzionale. Non ho mai considerato il valore dell’autonomia disgiunto da quello dell’unità nazionale: non è un caso che la Costituzione li fissi entrambi nello stesso articolo 5»: Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna e della Conferenza Stato-Regioni, ha vissuto mesi in una doppia trincea, quella amministrativa nel suo territorio, e quella politica nel delicato rapporto con il governo. Ma la sua linea, da sempre la più attenta – a sinistra – al tema della riforma del decentramento nel senso “asimmetrico” così caro alla Lega, resta improntata all’equilibrio. 

Presidente, ci spieghi…

C’è un aspetto della gestione dell’emergenza sanitaria che è sfuggito a tanti. Nella fase più difficile – quella delle scelte cruciali per arginare la pandemia – quando il Paese ha dovuto imboccare la “porta stretta” del lockdown, le Regioni hanno scelto una linea unanime, di grande unità. In un confronto costante con il Governo, hanno contribuito in maniera decisiva ad assicurare sia restrizioni omogenee, sia linee guida uniformi per l’intero Paese, calate poi in modo articolato e più aderente ai diversi territori. Se penso all’Emilia-Romagna, ricordo l’istituzione della zona rossa a Medicina, per tutelare la comunità locale e l’area metropolitana di Bologna, o le “zone arancioni” per le due province più colpite, Piacenza e Rimini; ma penso anche ai protocolli di sicurezza scritti insieme alle categorie economiche e alle organizzazioni sindacali per consentire una ripartenza sicura delle attività: molti di quei testi sono poi stati alla base delle linee guida nazionaliche abbiamo scritto insieme come Regioni. Questo vuol dire decidere per il bene del Paese, al di là di colori politici e confini geografici, tenendo insieme le differenze e sapendo rispondere alle diverse esigenze. 

E dunque non crede che nei mesi della crisi si sia confermata la necessità di un “tagliando” ai rapporti Stato-Regioni?

Io credo invece che il binomio fra autonomie territoriali e forte collaborazione e coordinamento nazionali abbia dimostrato grande efficacia proprio durante l’emergenza sanitaria. Il rapporto Stato-Regioni ha ritrovato una volta di più nelle Conferenze il luogo d’elezione per assicurare quella leale collaborazione che la Costituzione prescrive. Se tagliando deve esserci deve fare tesoro di questa esperienza, con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente questi strumenti essenziali che sono appunto le Conferenze. Lo dico a chi pensa di dare risposte semplicistiche a problemi complessi, ad esempio immaginando di risolvere il rapporto tra Stato e Regioni in favore di una istanza o dell’altra senza preoccuparsi delle reali necessità o degli effetti che ciò produrrebbe. Ho sentito addirittura teorizzare la “statalizzazione” della gestione del Servizio sanitario: in Emilia-Romagna i primi a ribellarsi sarebbero i cittadini, giustamente, prima ancora del sottoscritto . Se abbiamo prima retto l’urto tremendo della pandemia e poi avviato nei territori una forte azione di prevenzione e caccia al virus, lo dobbiamo al sistema sanitario regionale, pubblico e universalistico, che è stato creato in questi anni. Questo non toglie il fatto che anche qui dobbiamo e possiamo migliorare, così come non rimuove la necessità di assicurare a tutti gli italiani livelli essenziali di assistenza a prescindere dal territorio di residenza. Contrapporre queste cose è il classico esempio di semplificazione sciocca che alimenta conflitti anziché fornire soluzioni.



E l’idea di trattenere la maggior parte del residuo fiscale nelle casse delle Regioni che lo producono?

Ho sempre detto che chiedere di trattenere nel proprio territorio il residuo fiscale significa perseguire la secessione fiscale, una cosa incostituzionale e inaccettabile. Chi era partito per quella strada ha d
ovuto fare marcia indietro. L’approccio dell’Emilia-Romagna è sempre stato opposto: definire un progetto di autonomia in grado di assicurare programmazione, maggiore efficienza della spesa, risposte più rapide e semplici per cittadini e imprese. In un Paese che non è abituato a programmare, dove la spesa pubblica è troppo spesso improduttiva e dove la burocrazia è asfissiante l’autonomia regionale è utile se aiuta a risolvere questi problemi, non se contrappone i territori o il centro e la periferia. Si tratta di far funzionare meglio le istituzioni e la pubblica amministrazione, non di rivendicare potere o separazione. L’Emilia-Romagna non chiede un euro in più allo Stato ma si propone al contrario di spendere meglio le risorse che già sono impegnate sul nostro territorio.

Cos’è per lei la solidarietà tra Regioni?

Anzitutto riaffermo la necessità improcrastinabile di un progetto nazionale di sviluppo e coesione. La contrapposizione nord-sud è antistorica perché non consente di aggredire questo problema. La prima forma di solidarietà dovrebbe essere questa comune consapevolezza. C’è poi una solidarietà nell’emergenza, ne abbiamo avuto riprova con la pandemia: un'emergenza sanitaria come quella in corso può essere affrontata solo come sistema Paese, nessun territorio si salva da solo. L’idea delle Regioni viste come fortezze dell’egoismo territoriale è lontana dalla realtà ma soprattutto è fallimentare rispetto alle sfide che abbiamo davanti. Le Regioni a statuto ordinario compiono 50 anni, sono soggetti istituzionali “adulti”, è giusto riconoscerle per tali e pretendere che svolgano, ciascuna per sé e tutte insieme, quella funzione nazionale che la Carta assegna loro. C’è poi una forma di collaborazione che definirei solidale, quando in Conferenza delle Regioni ci si fa carico di situazioni specifiche: situazioni di calamità che colpiscono specifici territori, le necessità delle piccole regioni, le zone montane, le isole, il bilinguismo e le minoranze linguistiche, il flusso delle migrazioni e le emergenze ambientali. Infine c'è il tema ormai ineludibile di come conciliare l'efficienza nella gestione e la solidarietà di sistema: come ho detto, per me l'autonomia è un progetto di miglior gestione delle risorse e delle risposte, ma per funzionare ha come premessa logica che ciascun cittadino possa accedere ad uno standard minimo di servizi e che i territori più forti aiutino quelli più deboli in termini di perequazione. Se anziché alimentare divisioni ideologiche ci occupassimo di questo ci accorgeremo tutti come autonomia e solidarietà possono essere due motori complementari del progetto di sviluppo nazionale cui ho accennato.  

Lei ha detto di considerare l’autonomia come “programmazione, semplificazione burocratica”. In concreto, questo significa allontanarsi molto dall’interazione con i ministeri?

Al contrario, significa che i ministeri fanno di più quello che oggi fanno di meno: principi comuni, linee guida, indicazioni nazionali, da affidare poi alla programmazione e alla gestione regionale e locale. Aggiungo locale perché, almeno in Emilia-Romagna, la stessa regione si occupa di legislazione e programmazione, ma poi affida la gestione dei servizi a Comuni e Province. Faccio una previsione fin banale: i soldi ottenuti dall'Europa del recovery found, un grande successo del Governo, saranno spesi solo se nel piano nazionale saranno protagoniste le Regioni e gli Enti locali. Se la gestione sarà ministeriale tra due anni saremo ancora al punto di partenza. Intendiamici: che il piano debba essere nazionale non ci piove; che le priorità vadano stabilite a scale nazionale è imprescindibile; ma se i programmi e i progetti non saranno affidati e gestiti alle regioni stia pur certo che non partirà quasi nulla. Chi dovrebbe mai costruire scuole e ospedali, stendere la fibra o selezionare i progetti di sviluppo delle imprese, riqualificare le periferie e riorganizzare la mobilità, approntare cantieri contro il dissesto idrogeologico o per l'efficiemento energetico degli edifici? Solo le r
egioni possono programmare e organizzare questi interventi e, ripeto, serve il protagonismo dei Comuni.

Considera realistica e soprattutto utile una ulteriore riduzione del numero degli enti locali?

Per me la politica è soprattutto saper ascoltare. E i primi che vanno ascoltati sono i sindaci. Ascoltare il territorio vuol dire sbagliare meno. Lì capisci problemi, speranze, paure. Lì capisci quali possano essere le soluzioni migliori per un determinato territorio. Per questo non credo alle soluzioni centralistiche che facciano calare dall’alto una riduzione del numero dei Comuni. Credo però nell’Unione dei Comuni (su base volontaria) e nella gestione associata dei servizi locali. È per questa strada che poi diverse fusioni di comuni sono diventate possibili in Emilia-Romagna. Viceversa, se la logica diventa solo economicistica, sono proprio le comunità più piccole e fragili a ribellarsi. Noi stiamo realizzando un grande piano di sviluppo e coesione per la montagna e le aree interne affinché i territori più fragili siano parte integrante del sistema regionale. Se queste misure avranno successo allora l'integrazione istituzionale diventerà uno strumento di crescita. Sotto questo profilo, le Regioni possono fare molto e debbono fare di più.