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Edizione del 04/08/2020
Estratto da pag. 1
Contrariamente agli auspici, il tema del referendum settembrino sul taglio dei parlamentari non passa in sordina e agita il Pd. Proponendosi - nelle migliori tradizioni a sinistra – come elemento di divisione. Con l’aggiunta di diversi elementi di confusione. Nicola Zingaretti, in una nota, rilancia l’accordo di maggioranza sul proporzionale invitando “ad arrivare entro il 20 settembre a un pronunciamento di almeno un ramo del Parlamento”. Missione politicamente impossibile. E peraltro non risolutiva in prospettiva: agganciare una riforma costituzionale di tale impatto a una legge ordinaria – e in Italia maggioranza che viene, legge elettorale che va – rischia di perpetuare almeno sulla carta il “pericolo democratico”.
Ha gioco facile Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e capofila del No, che twitta: “Senza legge elettorale, dice il segretario, il taglio è pericoloso. Ma le leggi elettorali si fanno e si disfano. Dal 1990 ben quattro volte. E’ quindi probabile, sempre che adesso si riesca a votare il proporzionale prima del 20 settembre (non facile) che in futuro cambi ancora. Dobbiamo pensare che il taglio dei parlamentari diventi a quel punto pericoloso per la democrazia?”. Domanda che si pone, con un retweet sul tema, anche Ernesto Carbone.
Il tema c’è ma non affascina i Dem. “Oggi mi occupo di doppia preferenza di genere e di stato di emergenza” dribbla la domanda Stefano Ceccanti, deputato e costituzionalista che ben conosce la materia ma anche la scivolosità politica del tema sollevato quasi fuori tempo massimo da Goffredo Bettini. L’ex Guardasigilli Andrea Orlando è impegnato in riunione e promette di richiamare.
Sulla linea zingarettiana, come Emanuele Fiano, c’è Piero Fassino, fresco di elezione alla guida della commissione Esteri di Montecitorio: “Dobbiamo tentare in tutti i modi di arrivare al voto sulla legge elettorale concordata all’interno della maggioranza, altrimenti si porrebbe il problema di territori privi di rappresentanza parlamentare. Se sarà impossibile valuteremo, perché cambierebbe il quadro di riferimento”. L’ex sindaco di Torino non vede invece incongruenze tra il diverso rango delle due leggi: “E’ ovvio che la legge elettorale può cambiare, ma l’importante è che a quel punto sia funzionale al mutato assetto parlamentare e al dettato costituzionale, come è avvenuto in passato. Il problema non sussiste”. Ancora più deciso l’ex ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina: “Il mio voto sulla riduzione dei parlamentari non cambia perché non c’è ancora la nuova legge elettorale. Poi c’è il tema della legge elettorale, che per essere stabile e duratura va affrontata nella maggioranza e aprendo un confronto con le opposizioni. Sono due cose che vanno in parallelo. Ma il mio voto rimane Sì”.
Andrea Romano, ex direttore dell’Unità renziana, voterà Sì alla riforma “anche se la declinazione dei Cinquestelle non è la nostra: la questione dei costi è una minima parte, qui si parla di efficienza del Parlamento. Ma servono contrappesi quali la legge elettorale e la riforma dei regolamenti parlamentari”. Il tema della discrasia tra legge costituzionale e ordinaria esiste: “Certo, se domani vincessero Matteo Salvini e Giorgia Meloni niente impedirebbe loro di cambiare il sistema elettorale. Il problema c’è. Sarebbe giusto introdurre il controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali. A mio avviso serve il modello spagnolo o il proporzionale con soglia di sbarramento al 5% di cui si discute adesso”. Il punto, però, resta politico: “La posizione di Bettini è quella del “trattino” - spiega il deputato - del Pd che rinuncia alla vocazione maggioritaria. Ma oggi che al centro non ci sono i Popolari bensì un’accozzaglia di partitini personali si porrebbe un problema di governabilità”.
Il fronte del No – che annovera anche componenti extra-Dem tra cui Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi di +Europa, Bobo Craxi – è riluttante per ora a venire allo scoperto. Tra i malpancisti si fa il nome di Gianni Cuperlo, che a HuffPost conferma i dubbi sul v
otare Sì: “E’ vero. Ci sto pensando”. Brando Benifei, capo della delegazione Dem all’Europarlamento, voterà No: “Sul referendum non può esserci disciplina di partito. Ma difendo il fatto che il Pd abbia legittimamente trovato un accordo anche legato alla nascita del governo e al riassetto costituzionale”. Quanto alla legge elettorale, “nulla vieta in prospettiva che assuma rango costituzionale. Oggi però c’è un’intesa sul proporzionale ed è inaccettabile che Italia Viva non lo rispetti. Il premier si spenda per far rispettare gli impegni presi”. Michele Bordo, vicecapogruppo Pd a Montecitorio scheriato per il Sì, se la prende con Tommaso Nannicini per l’intervista a HuffPost: “Il taglio era un punto dell’accordo di governo insieme alla nuova legge elettorale. Non ricordiamo una sua battaglia, o di altri, per elezioni anticipate. Il compromesso andava bene a tutti allora, oggi invece qualcuno nascone la mano”.
A metà strada l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano: “Sto studiando a fondo gli argomenti. Ma mi convinco sempre di più che senza una legge elettorale diversa dal Rosatellum la riforma sarebbe pericolosa. Quindi, ho forti dubbi”. E la legge elettorale? “E’ evidente che può cambiare a seconda dei governi. Avere il cambiamento di legge prima del voto referendario sarebbe salutare per metterci relativamente al riparo. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. Riflessivo anche Matteo Mauri, viceministro all’Immigrazione: “Aspetto di capire se e come ci si orienta sulla legge elettorale. Ho votato convintamente No al taglio durante lo scorso governo e ho votato Sì poi per l’accordo di governo tra Pd e M5S”. L’ex ministro della Difesa e ideologo dell’Ulivo Arturo Parisi si limita a un laconico quanto cristallino tweet, che ripropone l’esultanza del Blog delle Stelle per la vittoria contro “la casta” dopo la terza approvazione della legge: “Memo. Taglio delle poltrone. Ecco a cosa ha detto Sì il Pd dopo tre No”.
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