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Edizione del 04/08/2020
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Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i Presidenti di Regione, nel cinquantesimo anniversario di costituzione delle Regioni a statuto ordinario

Palazzo del Quirinale, 04/08/2020

La ringrazio, caro Presidente, per queste considerazioni, e rivolgo a tutti un benvenuto di grande cordialità

Sono lieto che, anche se in maniera particolare, ridotta, per le condizioni che attraversiamo, possiamo sottolineare qui al Quirinale l’importanza di questa ricorrenza, non soltanto per le Regioni ordinarie, ma per tutta Italia, come dimostra la presenza dei Presidenti di Regione a Statuto speciale.

L’attuazione delle norme della Costituzione relative all’ordinamento regionale intervenne in una fase di grandi trasformazioni.

Un quinquennio che vide anche la approvazione, fra le altre, della legge attuativa dei referendum popolari, di quella relativa allo Statuto dei lavoratori, della legge sulle lavoratrici madri, dell’istituzione degli organismi partecipativi nella scuola, del nuovo diritto di famiglia, della maggiore età a diciotto anni, solo per citare alcuni dei provvedimenti di quel periodo.

Le basi della Repubblica si arricchivano sull’intero territorio nazionale – dopo le Regioni a statuto speciale – di un ente politico che completava la realizzazione del principio di autonomia definito dalla Costituzione.

Erano trascorsi venti anni dalla entrata in vigore della Carta costituzionale: si affacciava una soggettività politica dei territori in grado di ampliare e organizzare in maniera più compiuta la partecipazione dei cittadini alle scelte della convivenza democratica.

Oggi sembra singolare ma non fu un passaggio privo di interrogativi, con forze politiche fortemente ostili alla attuazione della norma costituzionale, con il manifestarsi di orientamenti non sempre corrispondenti alle posizioni espresse nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente.

Il ritardo ha certamente pesato nella delineazione di quello Stato delle autonomie previsto dai Costituenti: l’articolazione in Comuni, Provincie, Regioni è rimasta priva, per oltre due decenni, di un pilastro decisivo.

Il percorso che condusse alla approvazione, nel 1968, della legge 108, sulla elezione dei primi Consigli delle Regioni a statuto “normale” (come recitava il titolo e l’articolo I di quella legge), fu connotato da intensa preparazione e da ampio dibattito.

La questione non si poneva in termini soltanto istituzionali ma apparteneva, piuttosto, alla riflessione su come procedere sulla strada dell’ammodernamento e dello sviluppo del Paese.

Le Regioni venivano viste come importanti strumenti nell’ambizioso processo che si intendeva attuare con la programmazione economica: il Governo Moro, nel 1963, legava i due temi fra loro, anche nella prospettiva di concorrere al superamento del divario Nord-Sud.

Regioni, dunque, protagoniste attive, con lo Stato, per lo sviluppo delle condizioni di vita delle popolazioni dell’intera Italia.

L’esperienza preparatoria dei Comitati regionali per la programmazione economica mirava a questo, coinvolgendo le forze economiche e sociali dei territori in un grande esercizio di confronto, in attesa del nuovo pluralismo istituzionale delle Regioni. Proprio da quelle pratiche giunsero numerose idee e anche tanti amministratori di solida preparazione, eletti con il primo voto.

In questi cinquant’anni le Regioni si sono affermate come componente fondamentale dell’architettura istituzionale della Repubblica, con un indubbio e prezioso accrescimento della nostra vita democratica in ogni ambito.

La partecipazione dei delegati designati dai Consigli regionali alla elezione del Presidente della Repubblica ne rappresenta, anche simbolicamente, una manifestazione.

Le Regioni si sono rivelate un forte elemento di coesione del popolo italiano. Il senso di comune appartenenza alla Repubblica si ritrova al centro di ogni Regione, di ogni Provincia, di o
gni Comune.

Credo che si possa dire che le esperienze realizzate hanno gradualmente indotto a perfezionare l’attuazione delle previsioni costituzionali, talvolta favorendone una positiva e coerente evoluzione.

Se l’art. 5 della Costituzione afferma che la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, sappiamo tutti come la novella dell’art. 114 oggi reciti che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, superando la definizione degli enti territoriali come sue ripartizioni.

Un riconoscimento significativo della concorrenza paritaria alla costruzione delle politiche pubbliche, con un ruolo protagonista e, pertanto, naturalmente, altrettanto responsabile.

Appunto per questa protagonista corresponsabilità le Regioni partecipano al dovere di perseguire le finalità indicate agli art. 2 e 3 della Costituzione: l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale e la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza di tutti i cittadini.

Un compito, appunto, collettivo, che coinvolge la Repubblica intera, come ci ripropone anche una lettura autentica dell’art. 118, a proposito della sussidiarietà, individuata non soltanto come metodo ma come valore capace di arricchire la consapevole partecipazione democratica.

Pluralismo sociale, politico, culturale e linguistico, territoriale, completano così la articolazione della Repubblica e ampliano la sfera di libertà dei cittadini.

In questi cinquanta anni, il ruolo delle Regioni ha influenzato fortemente l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, pur se non sempre il loro assetto si è ridisegnato in maniera del tutto lineare. Funzioni fondamentali sono state attribuite alle Regioni.

Lo Stato ha progressivamente ma concretamente adeguato all’ordinamento regionale le organizzazioni periferiche di molti suoi uffici e attribuito nuove funzioni di coordinamento a livello regionale. Le giurisdizioni più interpellate riguardo alla dimensione regionale – quella amministrativa e quella contabile – si sono date un’articolazione regionale, anche quando non previsto dalla Costituzione.

La riforma del Titolo V, intervenuta nel 2001, ha rappresentato un coerente sviluppo dei principi costituzionali.

Il legislatore costituzionale, nel rafforzare le competenze legislative e amministrative delle Regioni, ha previsto che l’esercizio dell’autonomia si conformi ad esigenze di solidarietà e di perequazione finanziaria tra i diversi territori, riconoscendo allo Stato il ruolo di garante dell’uniformità dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali sull’intero territorio nazionale.

Esigenze accresciute dalla consapevolezza dell’aumento, intervenuto nel tempo, del divario di sviluppo tra i territori e, segnatamente, tra il Nord e il Sud del Paese, con il conseguente incremento delle diseguaglianze tra cittadini.

La solidarietà, peraltro, rafforza il dovere di un utilizzo equo, efficace ed efficiente delle risorse da parte di tutte le Regioni.

La questione delle Regioni è stata centrale nel dibattito politico e istituzionale degli ultimi decenni, ed è passata anche attraverso il vaglio di consultazioni referendarie popolari.

Tra le riforme costituzionali avanzate anche quella relativa alla istituzione di una seconda Camera a vocazione territoriale.

Questa proposta, come è noto, non è stata ratificata dall’elettorato e rimangono in opera gli strumenti già previsti di raccordo tra i livelli di governo regionale e statale.

È il sistema delle conferenze – Stato-Regioni, Stato-Città, Unificata - che ha dimostrato di avere un ruolo di particolare importanza, anche in occasione dell’emergenza sanitaria per contrastare la pandemia che non ha risparmiato il nostro Paese.

Questo profilo trova posto, in tutto il suo valore, nel documento presentato, in occasion
e di questo nostro incontro, dalla Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome.

Vi si evoca il principio della leale collaborazione, esplicitamente richiamato all’art. 120 e più volte enunciato dalla Corte costituzionale.

Accanto al coordinamento tra Stato e Regioni, che le Conferenze intergovernative sono in grado di assicurare, un ulteriore importante contributo di coordinamento orizzontale è quello offerto dalla Conferenza delle Regioni.

Come, a più riprese, ha ricordato la Corte costituzionale, il sistema delle Conferenze costituisce – in atto - l’unica sede per realizzare il principio della leale collaborazione.

La condizione attuale ha visto più volte la Conferenza delle Regioni sollecitare un riordino delle forme di raccordo tra Stato e autonomie territoriali, con specifiche proposte che meriterebbero di essere riprese.

Si avverte la necessità di individuare, con maggiore precisione, sedi e procedure attraverso le quali il principio di leale collaborazione, caposaldo della giurisprudenza costituzionale, possa divenire sempre di più la cifra dei rapporti tra lo Stato, le Regioni e le autonomie locali.

È importante che la soggettività politica delle Regioni si sviluppi, non in contrapposizione con l’indirizzo politico statale, ma in chiave di confronto e di cooperazione.

In generale - come il documento suggerisce, invitando a “riflettere oggi sulla nozione stessa di regionalismo” – siamo in un momento che richiede un’opera di aggiornamento e di sua più adeguata sistemazione complessiva.

Il documento – come ho ricordato - auspica il superamento di criteri di riparto sulla base di contrapposizione e che si approdi a logiche di complementarietà. Si fa ricorso, in tal modo, a una positiva attitudine collaborativa.

Non compete a me fornire risposte a questo riguardo ma è incontestabile che la presenza del livello regionale di legislazione, ancor più come ridefinito nel 2001, ha introdotto e pone a continua prova il tema del riparto della potestà legislativa e dell’esercizio delle competenze amministrative. La Corte Costituzionale, soprattutto dopo la riforma del 2001, ha svolto un’opera preziosa di regolazione, anche ponendo rimedio a qualche aspetto di insufficiente chiarezza delle norme costituzionali. Ma il problema presenta profili che richiedono una ulteriore, approfondita discussione e riflessione e una migliore definizione.

A tal fine una maggiore istituzionalizzazione e disciplina del “sistema delle Conferenze” potrebbe incrementare gli elementi di snodo e di raccordo tra il livello nazionale e quello regionale.

L’esperienza sin qui maturata dimostra, in particolare, come l’autonomia regionale risulti valorizzata dal venire esercitata nel quadro di accordi generali che tengano conto delle esigenze unitarie, di carattere giuridico, economico e sociale, rappresentate dallo Stato

Le Conferenze sono, quindi, il luogo della rappresentanza degli esecutivi statale, regionali e locali.

Allo sviluppo della collaborazione tra gli esecutivi potrebbe facilmente accompagnarsi, anche in funzione di bilanciamento, il riconoscimento di un ruolo alle assemblee legislative.

Al riguardo sarebbe sufficiente, per il momento, porre mano all’attuazione dell’art. 11 della riforma del titolo V del 2001, che prevede la integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle stesse autonomie territoriali.

Attraverso questa ridotta forma di adeguamento delle istituzioni parlamentari, potrebbe essere perseguita maggiormente la complementarietà nell’esercizio delle rispettive competenze legislative e favorita la condivisione ex ante di comuni obiettivi strategici, come auspicato nel documento di riflessioni e proposte presentato in questa sede.

Ci si muoverebbe nell’ambito dell’art. 5 della Costituzione che prevede che la Repubblica provvede ad adeguare “principi e metodi della legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

In
questa linea si inserisce il percorso in atto delle autonomie differenziate, previsto dall’art.116 della Costituzione. Sono ben consapevole che questo viene visto non al fine di competizione tra le Regioni – né, tantomeno, di emarginazione – ma come sollecitazione per attingere tutte più adeguati livelli di efficienza.

Il perseguimento di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, nello spirito del dettato costituzionale, appare idoneo a valorizzare specificità e capacità delle singole regioni, sempre in chiave di collaborazione politica. Diverrebbe così possibile realizzare aperture e diversificazioni che, nel loro insieme, accrescano il dinamismo dei territori, rafforzando al contempo il tessuto della Repubblica e salvaguardando appieno le esigenze unitarie.

È trascorso mezzo secolo dall’avvio dell’esperienza delle Regioni a statuto ordinario e nessuno ovviamente mette più in dubbio la soggettività politica acquisita da enti dotati di potestà legislativa, strumento della stessa autonomia politica.

Uno sguardo retrospettivo mette in luce, naturalmente, anche alcuni aspetti da riconsiderare che le accompagnano.

Il rischio delle Regioni di essere “grandi enti di amministrazione”, paventato nei dibattiti che hanno accompagnato, nei Consigli regionali, la elaborazione dei primi Statuti nel 1970, viene richiamato dal documento presentato dalla Conferenza delle Regioni in questa occasione.

Si sono succedute analisi critiche, indirizzate talvolta ad alcune amministrazioni regionali, circa ricorrenti tentazioni neo-centralistiche, sull’esempio del modello a suo tempo fatto proprio dallo Stato centrale dopo l’unità. Un eccesso di burocratizzazione con trasferimento dalla capitale ai capoluoghi delle Regioni.

È una consapevolezza sottolineata nel documento presentato dalle Regioni, laddove si indica – e cito le parole del documento, che sottoscrivo - “la ridefinizione del rapporto tra Regione e le altre componenti essenziali delle rispettive comunità: Comuni, Unioni, Provincie, Città metropolitane in una moderna e unitaria concezione di sistema delle autonomie territoriali” che “rifugga da ogni centralismo, sia statale sia regionale”.

Il dossier della riforma del sistema delle autonomie territoriali è aperto ancor oggi.

Una indicazione concreta viene anche dalla emergenza epidemiologica di questi mesi che ha visto Stato, Regioni e Comuni nella stessa prima linea nel contrastare un fenomeno del tutto ignoto, che si è sviluppato con una velocità e una virulenza impensabili, ponendo questioni di gestione, di adeguatezza e, ora, di adeguamento, dei nostri servizi e sistemi sanitari.

Se la violenza dell’epidemia appare essersi attenuata, non sono venute meno le esigenze di promuovere politiche coerenti con la tutela della salute dei nostri concittadini e con le esigenze di rilancio dell’economia del Paese, così duramente colpita dalle conseguenze della crisi sanitaria.

È un’esigenza ancora più pressante per rispondere alla crisi che stiamo attraversando.

L’Unione Europea ha dato prova di lungimiranza e tempestività nel mettere a punto strumenti volti a favorire la ripresa e la crescita economica del Continente.

Il Piano per l’Italia, in cui è prezioso il contributo delle Regioni, rappresenta un impegno ineludibile. Impegno correttamente avvertito non come il passaggio di una diligenza cui attingere ma come un’occasione di storico rilancio del sistema Italia, con modalità di coinvolgimento e collaborazione compatibili con la pressante urgenza di definizione.

È un appuntamento da non perdere per incidere su nodi strutturali con riforme e investimenti commisurati: tutela dei bisogni, rilancio dell’economia, valorizzazione dei territori con il recupero di ritardi decennali, sono priorità nazionali da definire alle quali devono concorrere tutte le energie del Paese, istituzionali, di ogni livello di governo, e sociali.

La Repubblica, forte del suo assetto consolidato e delle sue capacità, saprà far fr
onte anche a questa sfida.

 

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